Final Victory rappresenta il punto d’incontro dei percorsi creativi di Patrick Tam e Wong Kar-wai, quando il primo ha già nel carniere lavori come The Sword e Nomad mentre il giovane sceneggiatore scalpita per debuttare alla regia e ha in testa progetti già grandiosi: una trilogia, nientemeno, di ambientazione gangsteristica, di cui Final Victory dovrebbe rappresentare il terzo e ultimo tassello – il primo, As Tears Go By, sarà portato sullo schermo dallo stesso Wong kar-wai, mentre la seconda parte non vedrà mai la luce. Al debutto di Wong, Final Victory si apparenta per via dello spunto iniziale: là Andy Lau deve badare alla malaticcia cugina Maggie Cheung e allo scapestrato Jacky Cheung, qui il goffo Hung (Eric Tsang) riceve il compito di occuparsi delle due donne del fratello/boss Big Bo (Tsui Hark); entrambi i film si sviluppano attorno al complesso rapporto di dipendenza gerarchica e affettiva tra due malavitosi, variando però il registro narrativo. Wong sceglierà il punto di vista del “big brother” Lau, Tam quello del grassoccio e pavido Hung: ne consegue una deriva dolceamara e introspettiva, che se da un lato frequenta solo tangenzialmente le piste tipiche del noir, dall’altro anticipa certe sospensioni narrative del dittico Hong Kong Express / Angeli perduti (1).
Ma sarebbe sbagliato vedere troppo Wong – che pure a suo tempo lo definì il suo copione migliore – in Final Victory: Tam ha preso storia e personaggi e li ha fatti propri. Uno degli strumenti più evidenti di cui il regista si serve è il colore: buona parte delle scene sono caratterizzate da una tinta primaria, che ne indica la temperatura emotiva dominante. Il blu che invade lo schermo in alcune sequenze anticipa Burning Snow, a rimarcare la solitudine dei personaggi (Big Bo solo e immobile a letto, la notte precedente al suo ingresso in carcere) o la loro precarietà (Eric Tsang e Loletta Lee dopo aver fatto per la prima volta l’amore), mentre il rosso ne annuncia la passione, come quando Hung canta per Mimi nel karaoke bar circondato da rossi saturi e caldi; nella sequenza del peep show di Tokyo, invece, la cabina dove Mimi si spoglia si illumina alternativamente di rosso e blu, a sottolineare il contrasto tra la passionalità di superficie cui è costretta la giovane e l’intima umiliazione che ne deriva. Tam cerca spesso di racchiudere nell’inquadratura i tre colori primari: quando Mimi e Hung rimangono soli nella scuola abbandonata che serve loro da temporaneo rifugio, e dove la ragazza gli dichiarerà il suo amore, la maglietta rosso scarlatto di lui e la gonna gialla di lei sono gli unici elementi a distaccarsi dalla monocromaticità dell’insieme. A conferma di come il regista (che cura anche le scenografie) pianifichi ogni elemento della paletta cromatica in funzione di un risultato che non è solo di grande bellezza formale, ma dai precisi contenuti espressivi.
Anche la manipolazione del sonoro persegue uno scopo analogo: nella sequenza del karaoke, quando Hung inizia a cantare, la base musicale si azzittisce e lascia spazio alla voce dapprima esitante, poi sempre più sicura dell’uomo: poi riprende volume e vi si sovrappone nuovamente, prima di sostituirvisi del tutto quando Tam mostra la scena dal punto di vista di Mimi. Altrove – è il caso del prologo – il sonoro fa da contrappunto drammatico: alle inquadrature fisse di Hung e Big Bo immobili uno di fronte all’altro, è sovrapposto l’audio della rapina che Ping (Margaret Lee) e Mimi compiranno prima di un rapido flash forward di Mimi ferita.
All’interno del pastiche di generi di Final Victory c’è spazio per la rivisitazione dei luoghi comuni del gangster movie hongkonghese. Tam racconta un milieu malavitoso fatto di pesci piccoli che si credono principi, e che impongono il proprio potere col ricorso ad assurdi contrappassi, di crudeltà così grottesca da sfociare nel surreale: lo strozzino Choy obbliga Hung a mangiare un cesto di palline da ping pong per saldare un debito. Un piccolo mondo con piccoli miti (il vacuo e illusorio splendore dei grattacieli e delle sale giochi di Tokyo che accoglie Hung e Ping, carichi di membri di tigre rinsecchiti e Rolex fasulli da smerciare per racimolare un po’ di yen); un microcosmo dove ciò che conta è l’apparire, la comunicazione avviene secondo regole e frasi rituali e l’aderenza a simbologie e codici comportamentali assume il non-senso di una recita. Per sottolinearlo, Tam fa spesso rivolgere gli attori direttamente alla mdp, strutturando le scene in un’alternanza di campi e controcampi che si rivela ingannevole quando scopriamo che l’interlocutore non è la persona a cui è rivolto il discorso oppure è del tutto assente. Nella sequenza d’apertura Big Bo sembra minacciare Hung: in realtà lo sta istruendo su come affrontare il bellimbusto filippino che gli ha soffiato la ragazza, in una sorta di prova generale per una “prima” che andrà storta per la codardia del fratello. Cappello verde in testa a simboleggiare l’onore offeso, Big Bo recita la formula da pronunciare: “O ti tagli i testicoli con le tue mani, o lo faccio io!”. Ma dell’assurdità dell’aut aut imposto dalle regole si accorgerà lui stesso quando, per ironia della sorte, si troverà nella stessa situazione iniziale. Più avanti, nella tavola calda, Hung prepara il monologo (sbruffonesco, da uomo di mondo) da tenere nei confronti di Ping, rivolgendosi direttamente alla mdp (e alla fine chiede: “Sono andato bene?”); ma non saprà che pesci pigliare quando al posto della donna si ritroverà davanti un vispo bambinetto.
Tam e Wong svicolano dalle trappole del filone gangsteristico: in Final Victory non c’è traccia della violenza dell’heroic bloodshed, al punto che la sequenza clou della rapina non viene neppure mostrata, se non attraverso il frammento audio iniziale. E gli ingredienti del genere – l’eroismo, l’enfasi sulla violenza – sono demistificati dalle gag. Hung, nella sua ridicola inadeguatezza, è il grimaldello con cui Wong e Tam fanno saltare le convenzioni di questo mondo – o meglio, ne squadernano la ridicola assurdità. È per questo che Eric Tsang – corpo comico con pochi eguali nel cinema hongkonghese – non è mai una figura buffonesca tout court, nemmeno quando, la bocca piena di palline da ping pong, si deforma trasformandosi in un bizzarro cartone animato vivente; la vena malinconica del personaggio emerge di continuo, non appena si ritrova da solo e al riparo dagli sguardi inquisitori altrui. Come accade alla spumeggiante Ping, chanteuse non più giovane che si vanta con Big Bo del proprio ascendente sul sesso maschile più per convincere se stessa che per ingelosirlo, e che civetta con chi le capita a tiro per inerzia, prigioniera com’è del ruolo sociale che gli uomini le hanno riservato.
Già in Cherie Tam aveva tratteggiato la scoperta misoginia della società del suo paese, e la sessualità umiliata e repressa sarà uno dei temi di Burning Snow; anche Final Victory torna sul tema, con toni tra il serio e il faceto. Il funambolico viavai improvvisato da Hung nel bilocale di Mimi e imperniato su un fraintendimento sessuale, dà vita a una sequenza dai tempi comici impeccabili, ma non cade mai negli eccessi faciloni di certa commedia hongkonghese: e anzi prelude, il mattino seguente, alla sconsolata osservazione di Ping sull’egoismo degli uomini che a letto cercano solo il proprio piacere. La forza dei personaggi femminili in contrapposizione all’impotenza e all’inconcludenza dei maschi è l’ennesimo schiaffo alle convenzioni. È Mimi a corteggiare Hung e a dichiararsi, è lei a puntare un coltello alla gola di Choy per liberare l’amica nella sequenza del mahjong, e saranno lei e Ping a rapinare la banca, preso atto della codardia di Hung.
Final Victory è anche la storia della scoperta di un’altra vita, della coscienza di un altro mondo. Lo è per Hung, che grazie all’amore impara ad aver confidenza nel proprio corpo e nei propri sentimenti, e matura la consapevolezza di una possibilità di riscatto; ma lo è anche, in maniera assai più amara, per Big Bo, che in carcere assiste impotente al crollo delle sue illusioni e dei punti fermi del suo universo: la corazza che si è costruito per proteggersi – lui, orfano cresciuto tra mille stenti e divenuto boss a prezzo di sofferenze e umiliazioni – è ormai inservibile. Se la vittoria finale è quella di Hung, il vero perdente è Big Bo. Che alla fine rimane solo con una domanda (“How am I going to face the world now?”) a cui non sa dare risposte.
Nota
1) Si veda la scena in cui Hung calza ai piedi della ragazza la scarpina perduta, che rimanda ai momenti di Hong Kong Express in cui Takeshi Kaneshiro si occupa delle scarpe di Brigitte Lin.