Tra i registi della New Wave di Hong Kong, Patrick Tam è forse l’esempio più vivido delle tensioni e delle contraddizioni tra ambizioni artistiche e calcoli commerciali. I suoi film fanno riferimento in egual misura al cinema d’essai europeo e al cinema classico hollywoodiano, al cinema d’autore e ai generi, e nel fare ciò erodono il confine tra cultura alta e cultura bassa. Questo può valere per la carriera di altri registi (come Lau Shing-hon, i cui film di genere a volte mescolano azione e acidi commenti sociali). Comunque non c’è nessun altro autore la cui opera - in particolare i suoi quattro primi lungometraggi, da The Sword (1980) a Cherie (1984) - illustri così chiaramente questo scontro tra culture diverse. Il secondo film di Tam, Love Massacre (1981), è un caso esemplare.
Sia per la forma sia per il contenuto, Love Massacre può essere letto come un luogo dove si svolgono numerose e complesse negoziazioni intertestuali e tra media diversi. A livello visivo, ci sono ovvie influenze del cinema d’essai europeo degli anni Sessanta e Settanta - in particolare i film di Godard della fine degli anni Sessanta, come Pierrot le fou (Il bandito delle 11, 1965), Made in U.S.A. (Una storia americana), Due o tre cose che so di lei (entrambi del 1966), La cinese o Weekend (entrambi del 1967). L’uso formalista della mise en scène, il taglio delle inquadrature e soprattutto l’uso del colore ricordano alcune delle strategie estetiche di questi film godardiani. Ciò è visibile fin dai titoli di testa: scritte rosse e blu su fondo nero. La tavolozza del film si riduce a pochi colori dominanti, quasi sempre colori primari, come rosso, blu, giallo e viola, con il bianco e il nero usati a mo’ di contrasto. Le inquadrature, per lo più piani medi o mediolunghi, sono per lo più fisse, con pochi movimenti della macchina da presa - quasi sempre panoramiche orizzontali e verticali, con pochi carrelli. La maggior parte delle inquadrature presenta una bidimensionalità ottenuta con l’uso del teleobiettivo. Sperimentando con la profondità di campo, ci sono casi in cui i personaggi sembrano completamente staccati da ciò che sta dietro o davanti a essi. In questo contesto, può essere utile ricordare ciò che David Bordwell scrive delle inquadrature “planimetriche”. Il termine è stato coniato dallo storico dell’arte Heinrich Wölfflin per descrivere un tipo di composizione che dispone le figure su un piano
parallelo alla superficie dello sfondo. Come strategia cinematografica di messa in scena e di composizione dell’inquadratura, Bordwell ne trova le prime tracce negli anni Sessanta, in Questa è la mia vita (1962) di Godard e Il deserto rosso di Antonioni (1964): dove l’effetto ottenuto con lenti dalla focale lunga si combina con quella che chiama “inquadratura da foto segnaletica” (dove il soggetto è ritratto con la macchina da presa frontale). Forse ancora più importanti di queste influenze intertestuali è l’evocazione della pittura astratta. In particolare Tam sembra essere colpito dall’astrattismo geometrico di Piet Mondrian e dalle campiture di colore di Mark Rothko. Due riproduzioni dei loro quadri sono appese nella stanza di uno dei personaggi principali, e una scena di dialogo è girata in una galleria d’arte moderna. Qui si vedono altri quadri di Rothko, e un altro che omaggia il “Quadrato nero” suprematista di Malevich: e in certe inquadrature i personaggi si fondono con le sculture e i quadri che li circondano. A parte ciò, ci sono un paio di scene in cui Tam sembra ricreare i loro quadri. La sequenza finale, per esempio, richiama esplicitamente le “Composizioni” di Mondrian degli anni Venti. Seguendo le teorie dell’astrattismo e in particolare del gruppo De Stijl, l’obiettivo principale di Tam è liberare i colori e restituirli al proprio valore. Come scrive William Cheung, “in tutto il film Tam trasforma la funzione dei colori e la composizione dell’immagine:
anziché essere semplici strumenti per esprimere le qualità dei personaggi, diventano elementi significativi di per sé”. Come ha teorizzato nel suo saggio sul colore, Tam pone l’accento sulla separazione e il posizionamento dei colori per ottenere l’equilibrio compositivo ideale.
A differenza del famoso episodio Miu Kam-fung della serie TV Seven Women (1977) o del suo terzo film Nomad (1982), Love Massacre evita qualunque implicazione sociale e politica. Invece, Tam sceglie un incrocio tra melodramma e thriller psicologico con un intreccio di genere abbastanza diretto. Con il melodramma che si trasforma in thriller nella seconda metà del film (come segnalato sia dal titolo inglese sia da quello cinese dei film: Love Massacre o Ai sha/Ngoi sat, dove il secondo significa “amare, uccidere”), Love Massacre racchiude quelli che Michael Walker definirebbe due differenti concetti di melodramma: il melodramma di passione e quello di azione. Dal punto di vista narrativo, il film aderisce a convenzioni di genere ribadite da una colonna sonora che a tratti sembra essere prelevata direttamente da un film di Hitchcock.
Tam, tuttavia, non sembra essere interessato a un intreccio e a personaggi da film di genere. E pertanto usa una varietà di strategie stilistiche e narrative per minare le aspettative degli spettatori. Come nota Fung Lai-chi “il comportamento di tutti i personaggi è simile a quello di zombi, rigidi e privi d’espressione”. Cheung aggiunge che “i dialoghi sono sconnessi e come
farfugliati nel sonno”. In un’immagine rivelatrice Brigitte Lin è sdraiata sull’erba con un libro di Artaud al suo fianco. Nel suo Teatro della crudeltà, Artaud si faceva promotore di un nuovo linguaggio teatrale, una delle cui premesse doveva essere un nuovo stile di recitazione. Nella sua concezione allargata, il discorso non privilegia le parole, ma comprende inflessioni, articolazioni, fonemi, suoni. Il che può essere applicato ai dialoghi di Love Massacre e alla loro recitazione inusuale. Per cui, anziché essere solo una citazione letteraria come se ne trovano in Pierrot le fou, si può considerare come il riferimento esplicito a un particolare Verfremdungseffekt (effetto di straniamento).
Questa lettura vale anche per il cast. La scelta sia di Brigitte Lin sia di Charlie Chin è particolarmente significativa sotto questo punto di vista. Una delle due coppie più famose del cinema taiwanese degli anni Settanta, i cosiddetti “due Lin e due Chin”, all’epoca erano protagonisti di innumerevoli melodrammi. Fung nota che “il pubblico ha l’impressione di vedere il dramma d’amore che Brigitte Lin e Charlie Chin recitano normalmente. Ma poi, quando il racconto si evolve nella seconda parte con assassinii a sangue freddo, lo shock è ancora più forte”. Ciò che può risultare scioccante, in primo luogo è soprattutto alienante. A ciò si aggiunga che i personaggi di Lin e di Chin nel film non sono amanti (e per quanto ne sia amico, non è Chin a salvare Lin alla fine). Quindi, attraverso questo strategie e l’enfasi posta sullo stile come mezzo espressivo, Love Massacre illustra perfettamente il nocciolo del Teatro della crudeltà artaudiano: smettere di fare un eccessivo affidamento al testo drammaturgico, e portare in primo piano tutti gli aspetti non testuali. E con una piccola forzatura sarebbe possibile far rientrare l’intreccio di Love Massacre nei temi più cari ad Artaud: amore, delitto, guerra e follia.
Se si esamina la produzione critica in inglese sui film della New Wave hongkonghese, spesso si avverte un atteggiamento di rammarico e di excusatio non petita: come se il punto non sia ciò che ha realizzato la New Wave, ma ciò che non è stata e che avrebbe potuto essere. A partire dall’osservazione, spesso ripetuta, secondo cui la New Wave di Hong Kong è diversa dalla Nouvelle Vague. Forse è giunta l’ora di lasciarsi alle spalle questo atteggiamento normativo e iniziare una vera rivalutazione. Il che non significa solo prestare attenzione alle opere quasi canoniche di Ann Hui, Tsui Hark e Allen Fong, ma anche a film di registi meno conosciuti, ai loro contesti interstestuali e interculturali, ridefinendo così il quadro di riferimento. L’opera di Tam in generale e Love Massacre in particolare sono sicuramente un buon punto di partenza.