The Sword

1. Per la sua prima regia cinematografica Patrick Tam si confronta direttamente con la tradizione, mettendo in scena un wuxiapian crepuscolare e tragico. Una scelta inaspettata, considerato che le opere televisive erano animate da uno spirito inquieto e da una nuova consapevolezza stilistica. Insieme agli altri autori della New Wave, Patrick Tam stava svecchiando la grammatica della narrazione per immagini. Ad alcuni The Sword apparve invece legato a un percorso già esplorato, una semplice variazione tematica, a cui al massimo si riconosceva un buon uso della fotografia e una certa cura formale. L’intento di The Sword non era però azzerare d’un colpo i contenuti e la sostanza del genere wuxia, quanto rileggere il passato da una prospettiva inedita.
Tam parte dal noto e, lentamente, cesella dall’interno significati nuovi: una frammentazione a prima vista impercettibile che acquista senso compiuto solo nell’epilogo, in forza dei particolari disseminati in precedenza e che qui conflagrano. Non a caso il tema centrale è classico: la smania di potere e di autoaffermazione logorano chiunque, seminando morte e distruzione. Li Mak-yin (uno statuario Adam Cheng) è un eroe decadente, inconsapevolmente faustiano, che per il desiderio di conoscenza, che poi è un desiderio di potenza, devasta tutto quello che lo circonda, compreso se stesso. In parallelo a questo processo di disfacimento individuale viene rappresentato lo sfaldarsi dei nessi sociali, familiari e sentimentali - ossia dell’intera società. I protagonisti sono essenzialmente sei, tre uomini (Li Mak-yin, Lin Wan, Wah Qian-shu) e tre donne (Ying-chi, Hsiao-yue, Yuen-chi). Le complicate relazioni che li legano vengono sistematicamente annientate, fino a lasciare solo macerie. Si tratta sempre di legami diadici che intersecano i sei personaggi in una rete solo in apparenza inestricabile. Il rapporto di attrazione tra amante e amata (Li Mak-yin e Hsiao-yue), quello tra moglie e marito (Hsiao-yue e Lin Wan) o tra padre e figlia (Wah Qian-shu e Ying-chi), il rapporto di fratellanza tra uomo e donna (Li Mak-yin e Ying-chi), quello di ammirazione tra maestro e discepolo (Wah Qian-shu e Li Mak-yin), tra saggio e ammiratrice (Wah Qian-shu e Yuen-chi), infine quello tra ospite e ospitante (Li Mak-yin e Yuen-chi) finiscono tutti con l’incrinarsi. Con la sua sola presenza il protagonista innesca una serie di reazioni inderogabili, in grado di annichilire la sfera collettiva e sgretolare le sue illusioni di gloria.
Questo nucleo concettuale, la parabola discendente di Li Mak-yin, si armonizza alla destrutturazione della messa in scena. Nella prima parte le scelte sono dichiaratamente neoclassiche. Gli intervalli naturalistici, amplificati dal formato panoramico, i movimenti di macchina calibrati, la gamma di colori primari pieni e in qualche misura simbolici, l’attenzione per la profondità di campo sono elementi che lasciano volutamente poco spazio a guizzi rivelatori, pur presenti - come nell’opzione, reiterata almeno in due occasioni, di far entrare in campo gli attori da angolature impossibili. Nella seconda parte le stesse scelte sono intrecciate a un ritmo sincopato e a soluzioni più apertamente sperimentali. Il montaggio, che procede per evocazioni, fa collassare la struttura, suggerendo approcci spuri, i quali si concentrano nel vertiginoso crescendo finale. Il virato rosso della morte di Hsiao-yue trasmuta nel colore uniforme di un muro. I primissimi piani alternati dei dettagli dei corpi sanguinanti di Li Mak-yin e Lin Wan finiscono con il confondersi e con il confondere. L’impressionante sequenza di stacchi durante i momenti conclusivi del duello, da quando Lin Wan vola verso Li Mak-yin fino all’inquadratura dell’ingresso vuoto della casa, scardinano l’esultanza per la vittoria con l’emergere della coscienza di una sconfitta ben più profonda. L’effetto non è dato tanto dalla velocità dei raccordi, non eccessiva (19 tagli in 12 secondi), ma dall’intensità ipnotica degli accostamenti, con lo sguardo insanguinato del sopravvissuto contrapposto all’intoccabile placidità dell’ambiente.
Tramite la discesa agli inferi del suo protagonista, Patrick Tam fa deragliare con sempre maggiore chiarezza l’intero genere wuxia. Non a caso lo scontro decisivo tra i due antagonisti non è più quello tra un eroe positivo e la sua controparte, come era sottinteso a inizio film e come richiederebbe la sintassi del genere, ma tra uomini egualmente corrotti dalla volontà di possesso - si tratti del titolo di spadaccino supremo, di due spade leggendarie, della medesima donna. Per questo entrambi disperatamente negativi.

2. The Sword riplasma i wuxia classici, pur rimanendo entro lo stesso solco. A posteriori è ancora più agevole vedere come il film faccia parte di un processo radicale e coerente di rivisitazione. Un procedimento già attuato, con metodi inversi, ma intenti simili, da Tsui Hark. In The Butterfly Murders, del 1979, Tsui prende un intrigo a base di omicidi e doppi giochi e aggiunge elementi stranianti fino a saturare la pellicola. Armi improbabili, coreografie barocche e invenzioni immaginifiche in lotta contro la fisica contribuiscono a creare un senso dello stupore iperbolico. La novità non è data tanto dall’intreccio (un whodunit inserito in un contesto folklorico), né dagli elementi spuri aggiunti (singolarmente già utilizzati in passato), quanto dalla risultante del lavoro di accumulo che ha modo di esplodere solo alla fine, quando si è in grado di metabolizzare tutti gli stimoli. L’effetto di ridondanza si trasforma in una efficace riscrittura e superamento dei modelli. Più moderata, ma altrettanto esplicita, è l’incursione di Johnnie To. The Enigmatic Case, del 1980, segue le indagini di uno spadaccino che vuole scagionarsi dalle accuse di omicidio e furto che gli sono state rivolte. Il film, dalla narrazione serratissima, in grado di comprimere a piacimento gli avvenimenti, ha un inusuale tono melodrammatico, portato alla luce dalla colonna sonora suadente. E amplificato dalle immagini iniziali, che in un febbrile flash forward rimandano ai due duelli finali, preda di una spietata brutalità che non conserva più nulla di cavalleresco. Per Patrick Tam, così come per gli altri, il ritorno alla tradizione è quasi un saldare i conti con essa. Diventa il primo indispensabile passo per potersene distanziare, verso opere più indipendenti come Love Massacre, Nomad o quelle della completa maturità.
A metà anni sessanta i film di cavalieri erranti erano stati stravolti da un pugno di pellicole che ne avevano ricodificato regole e significati. Una rivoluzione che da tecnica - ad esempio gli ingenui effetti speciali volti al superamento della fisica di Temple of the Red Lotus (Chui Chang Wan, 1965) o le coreografie danzanti di The Jade Bow (Fu Qi e Cheung Yam Yim, 1966) - si fa teorica. Da un lato il furore nichilista e la vertigine della violenza di Zhang Che (The One-Armed Swordsman, 1967), che trascina il genere nella fisicità della carne e nell’anelito tutto maschile alla gloria; dall’altro il rigore sintattico e l’istinto allegorico di King Hu (Come Drink with Me, 1966), che altera il mondo etereo degli spadaccini in una macchina dello stupore che torna alle radici (letterarie) della cultura cinese. The Sword prosegue questo sforzo, soprattutto amplificando la ricerca stilistica inaugurata da King Hu e culminata in A Touch of Zen (1971). Eppure le aporie zen buddiste di Hu non sono la sola cartina di tornasole del lavoro di Tam.
Negli anni ‘70, aperti dal trionfo del gongfupian (da Bruce Lee in poi) e chiusi dalle sue varianti comiche (Yuen Woo Ping, Jackie Chan, Sammo Hung), la nuova formula wuxia viene sfruttata in infiniti emendamenti, salvo rare eccezioni perdendo vitalità. Apice e punto di non ritorno è Chor Yuen, che porta sullo schermo le intricate novelle di Gu Long. A questa accoppiata si deve l’esplicitazione della forza trainante e dolorosa del jiang hu, il mondo segreto delle arti marziali, un microcosmo impenetrabile separato dal mondo dei semplici mortali e retto da leggi proprie. La volontà di Li Mak-yin, baricentro di The Sword, è la stessa che anima i personaggi di Chor Yuen, da Death Duel a Jade Tiger, come identica è la loro sorte priva di speranza. La coazione spossante alla lotta, la brama di potere e gloria, sacrificando tutto il resto, si trasforma in una tensione verso la solitudine, la pazzia o la morte. Lo si vede chiaramente in Swordsman and Enchantress (1978), in cui la metafora si palesa: il jiang hu diventa una casa in miniatura in cui sono posti i pupazzi dei guerrieri più famosi, un teatro delle velleità manovrato da un demiurgo senza scrupoli, il destino. In una vertigine di rimandi tra realtà, finzione e invenzione, l’antieroe (Ti Lung) crede di essere rimpicciolito e posto al centro della casa di bambole. Ma anche quando comprende la realtà dietro all’apparenza, spezzando le catene che lo legano entro il palcoscenico delle arti marziali, non può tornare al mondo reale, quello dei legami e dei sentimenti, perché il jiang hu non permette ripensamenti.
La continuità è evidente: Patrick Tam rilegge i problemi (di contenuti e di rappresentazione) posti da Zhang Che e soprattutto King Hu dall’ottica fatalistica propria di Chor Yuen. La sua rielaborazione, così come quella degli altri figli della nouvelle vague hongkonghese, è il vagito di un’ulteriore rivoluzione, verso la definitiva implosione. Solo che in questo caso serve più di un decennio perché il ciclo sovversivo sia portato a compimento. E alla fine dell’incubazione Ashes of Time, del pupillo Wong Kar-wai, significativamente montato anche da Patrick Tam, e The Blade, di Tsui Hark, sfociano in un termidoro al contempo sublime e apocalittico.

Stefano Locati
FEFF: 2007
Regia: Patrick Tam
Anno: 1980
Durata: 88
Stato: Hong Kong

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