Il titolo Female Slave Ship (Onna Doreisen, 1960) di Onoda Yoshiki sembra promettere quel tipo di delizie e di depravazioni erotiche che nessun film dell’epoca poteva dare: si tratta tuttavia di un succoso e vivace film d’azione che richiama più i B-movie hollywoodiani che la realtà del commercio sessuale durante la guerra.
La storia è ambientata nel 1945, quando la situazione bellica del Giappone era sì disperata, ma non del tutto priva di speranze. Un impavido giovane ufficiale, Sugawa (Sugawara Bunta), viene inviato in missione segreta, ma, prima che riesca a raggiungere la sua destinazione, il suo aereo viene abbattuto sopra il Mar cinese meridionale.
Lo salva una rugginosa nave da carico in rotta per Shanghai. Presto però Sugawa scopre che il carico è costituito da donne giapponesi, che verranno vendute come schiave sessuali. Una di esse, Rumiko (Mitsuya Utako), carina e innocente, viene presa mentre cerca di buttarsi a mare e per punizione viene frustata. Sugawa scopre che non è una prostituta come le altre, ma un’infermiera che è stata imbarcata a forza per Shanghai.
Quando il nobile Sugawa si fionda a salvarla (e, non a caso, pregiudica la sua missione), è ostacolato dalla sedicente “regina” della nave (Mihara Yoko) e dai suoi tirapiedi.
Poco tempo dopo, la nave è assalita dai pirati e, dopo alcuni atti temerari ma inefficaci di Sugawa, l’equipaggio e le “schiave” vengono portati in un’isola, dove il cinico capo dei pirati (Tanba Tetsuro) contratta il loro destino con un viscido trafficante cinese di carne umana (Amachi Shigeru). Ma Sugawa non ha ancora detto l’ultima parola.
Le scazzottate, le sparatorie e altre azioni tipiche del genere sono meno avvincenti del brivido sessuale, come l’azione secondaria tra un Sugawara a torso nudo e con mani e piedi legati, ma indomito, e una caustica Mihara che fa schioccare la frusta.
Mark Schilling