Ci sono dei film che è difficile classificare, giacché si compongono d’elementi che di primo acchito appaiono eterogenei e creano quindi una strana sensazione di disagio nello spettatore - che vorrebbe darsi una definizione chiara di ciò che gli si presenta sullo schermo, ma che invece fatica a ridurre tali pellicole ad una facile identificazione. Identity appartiene certamente a questo lignaggio: ancorato in una solida e nobile tradizione indonesiana di cinema d’impegno che, soprattutto attraverso la metafora, ha saputo commentare anche amaramente i guasti della società e della politica dell’arcipelago, il film di Aria Kusumadewa si sporca d’elementi di grottesco quasi comico, se non di vera e propria scatologia. Una commistione che si giustifica probabilmente in un tentativo di coniugare l’impegno con l’accessibilità, il desiderio di raggiungere una platea più vasta possibile. In effetti, tra i produttori di Identity c’è pure quel Deddy Mizwar al quale si deve la commedia Naga Bonar (Jadi) 2, il più grande successo indonesiano di tre anni fa.
È difficile, però, non sorvolare sulla natura assai poco attraente degli elementi che Identity mette in gioco: il protagonista, Adam (unico personaggio in vita e che si veda in scena di cui conosciamo un nome - e un nome scelto tutt’altro che a caso; quello del “primo uomo”), vive in un povero vicinato prossimo ad un cimitero, i cui abitanti sono minacciati d’esproprio, in vista di una riqualificazione che prevede la costruzione di una nuova e moderna struttura religiosa, pulisce cadaveri all’obitorio e colleziona i cartellini identificativi a forma di bara che vengono legati all’alluce dei morti. L’ospedale presso cui Adam lavora assomiglia ad un girone infernale, un costernante (ma anche salace) paesaggio d’umanità degradata e umiliata che Aria Kusumadewa rivela la prima volta in un lungo piano sequenza di pristino virtuosismo registico: degenti sfigurati tramutati in mummie o ai quali è stato amputato un piede anziché rimossa l’appendice, infermiere assai poco disponibili verso i pazienti, ma disponibilissime verso il primario, richieste di rimuovere un furgoncino parcheggiato sulla corsia d’emergenza delle ambulanze che giungono dagli altoparlanti, avvoltoi che cercano di vendere ‘pacchetti’ per i servizi funebri ai familiari dei cari estinti, una maîtresse che cerca di reclutare nuove prostitute tra le donne che non riescono a coprire le spese ospedaliere dei propri cari… E la protagonista femminile del film, una ragazza cinese-indonesiana senza nome che infine - quando il suo tragico destino sarà già compiuto - Adam battezzerà Hawa (Eva), è probabilmente finita nel giro proprio così: spossessata e senza tetto, deve attendere ad un padre misteriosamente e inguaribilmente malato; l’unica maniera per pagarne le prescrizioni è vendere il proprio corpo. L’incontro tra i due disgraziati (anche se Adam aveva già da un po’ adocchiato la ragazza) avviene una sera, quando l’uomo trova la giovane addormentata sulla panca di fronte all’ingresso dell’obitorio; lui la invita a dormire nella camera mortuaria, perché lì c’è l’aria condizionata, lei accetta, perché i vivi le fanno più paura dei morti…
Concedendosi pure frecciate di vis satirica (bersagli la politica e i media), Identity trafigge come un alto grido d’allarme che denuncia la condizione di milioni di persone che in Indonesia vivono in povertà assoluta e in balia del potere, senza nome, senza identità (non solo metaforicamente: sono davvero numerosissimi i casi d’individui privi di documenti, vuoi perché perduti, vuoi perché mai registrati ad un’anagrafe), senza diritti. E i soli stralci di carta che rimangono a comprovare la loro esistenza, il loro passaggio su questa terra rischiano proprio d’essere quelle bare di cartoncino con un nome scritto sopra che Adam devotamente conserva.
Non a torto, Identity ha vinto quattro Citra Awards (gli Oscar indonesiani): miglior direzione artistica, miglior attore, per la memorabile performance di Tio Pakusadewo (che ha anche curato le musiche del film e che la platea di Udine ricorderà forse anche in Quickie Express e The Forbidden Door), miglior regia e miglior film indonesiano del 2009.
Paolo Bertolin