Che il genere horror sia la principale leva che attira il pubblico malese nelle sale cinematografiche locali e conseguentemente la più ricca fonte di profitto per i produttori di Kuala Lumpur è cosa ben risaputa. Se in paesi dai climi più temperati, come Corea e Giappone, la stagione dei brividi è ovviamente l’estate, in un territorio equatoriale come la Malaysia la catena di montaggio che produce i film di paura rimane attiva 365 giorni l’anno.
Non deve quindi sorprendere il fatto che anche gli acclamati registi della new wave digitale locale, acclamati dalla critica internazionale a Cannes, Venezia, Berlino, Rotterdam e Busan, allorché cercano di “battere cassa” per finanziare future nuove produzioni indipendenti - o semplicemente per guadagnarsi il necessario per campare, visto che i film digitali acclamati all’estero a malapena escono in sala in Malaysia - , si cimentino sovente proprio nell’esercizio dell’horror, genere che non potrebbe parere più distante dalle loro prove d’autore.
Del resto, anche nell’ambito delle produzioni digitali indipendenti, il più grande successo di botteghino l’ha registrato il film ad episodi Visits: Hungry Ghosts Anthology (2004) firmato da due pionieri della new wave, Ho Yuhang e James Lee e da Low Ngai Yuen e Ng Tian Hann. Nel 2008, Amir Muhammad, autore di notevoli pamphlet documentari che hanno suscitato grandi controversie in patria - nonché il bando da parte della censura di The Last Communist (2006), ha conosciuto un buon successo commerciale con Susuk (in verità completato da Naeim Ghalili in seguito a complesse vicende produttive). Dopo Visits, James Lee si è cimentato con una produzione mainstream con Histeria (2008) e in mesi recenti si è convertito risolutamente in prolifico istigatore di brividi tanto in lingua malese, con Sini Ada Hantu (2011) che in lingue cinesi, con l’interessante Claypot Curry Killers (2011).
È in questo contesto che si può comprendere come Woo Ming Jin, primo regista malaysiano a poter vantare inviti ai tre principali festival europei (Cannes, Venezia e Berlino), ma i cui film più recenti, il meraviglioso Woman on Fire Looks for Water (Venezia 2009) e Tiger Factory (Cannes 2010), non sono usciti in sala in Malaysia, abbia anch’egli ceduto alla tentazione dell’horror.
Seru è in verità un progetto che il cinese di Malaysia Woo ha sviluppato con l’amico e collega Pierre André, popolare attore e regista malese, che Woo aveva diretto nel suo poco noto secondo lungometraggio - e sua prima incursione nel cinema commerciale - Salon (2005) e che come regista, ha conosciuto le sue migliori fortune proprio con un horror, Jangan Tegur (2009).
I coautori hanno ben pensato d’importare in Malaysia il modello di successo di Blair Witch Project - e più recentemente di Paranormal Activity -, ossia il gioco di una documentazione video che segue la progressiva evoluzione di un fenomeno minaccioso e incontrollabile che conduce all’inevitabile eliminazione dei protagonisti. E non è certo uno spoiler rivelare che Seru non tradisce la formula. Meno ovvi sono i dettagli della trama che in questo caso è meglio non rivelare. Basti sapere che una troupe cinematografica intenta a girare proprio un horror nel cuore della foresta pluviale malaysiana si trova a far fronte a casi devastanti di possessione e che il veicolo del racconto diventano la videocamere che dovevano registrare il making of del film stesso.
Si tratta di una messa in abisso efficace, supportata da una realizzazione vistosamente più professionale e stilisticamente più azzardata e ricercata di qualsivoglia altro horror malese visto negli ultimi dieci anni. Inevitabilmente, infatti, il film si regge su una costruzione di lunghi piani sequenza che prevedono una tenuta attoriale, di fotografia e sonoro superiore a quelle che caratterizzano d’abitudine le produzioni locali. Non sarà forse un film rivoluzionario sul piano dell’horror mondiale, ma Seru porta finalmente e fortunatamente una piena dimensione di professionalità e ricerca di accuratezza nella produzione di genere malaysiana. Un passo avanti che merita davvero d’essere sostenuto.
Paolo Bertolin