Un serial killer violenta e smembra diverse bambine della scuola elementare, facendo inferocire l’opinione pubblica. Dopo aver ucciso accidentalmente il sospetto numero uno senza alcuna prova concreta, e sentendo su di sé le pressioni dello stesso presidente della repubblica, la polizia cerca di insabbiare il caso piuttosto che risolverlo.
Per il capitano di polizia Choi Cheol-gi (Hwang Jeong-min, Bloody Tie), che è stato messo da parte al momento di una promozione per non avere frequentato l’Accademia di Polizia, e che è indagato per il suo legame con il gangster Jang Seok-gu (Yoo Hae-jin, Tazza: The High Rollers), questa è l’occasione della vita. Obbliga Seok-gu a trasformare uno dei sospettati in capro espiatorio e in cambio gli garantisce un appalto per la costruzione di un grattacielo, impedendo al concorrente di Seok-gu di partecipare alla gara d’appalto.
Succede però che il rivale estromesso abbia sul suo libro paga un ambizioso procuratore, Joo Yang (Ryoo Seung-beom, Crying Fist), che ora diventa un altro protagonista della partita.
Scritto dal famoso sceneggiatore Park Hoon-jeong (I Saw the Devil) e rielaborato dallo stesso regista, il settimo film di Ryoo Seung-wan è pieno degli elementi classici del thriller poliziesco. I poliziotti pestano a sangue i piccoli delinquenti, a volte per puro divertimento; gli ex gangster cercano faticosamente di diventare uomini d’affari a posto con la legge, mentre le grosse società non vedono l’ora di intraprendere le attività che quegli stessi gangster svolgevano un tempo; funzionari corrotti chiudono un occhio davanti ad affari illegali che finiranno per eliminare quei pochi che ancora credono nell’onestà. Persino l’ambiente è freddo e crudele: al di sopra di questo spazio amorale, inumani grattacieli di acciaio e cemento incombono su esseri umani piccoli come insetti.
Per quanto tipici possano sembrare questi elementi di genere, non è facile sollevarli al livello dell’analisi e della critica sociale. Molti polizieschi “seri”, infatti, sono incentrati più che altro su sparatorie dal ritmo sostenuto o sull’elettrizzante gioco del gatto col topo. È dunque sorprendente che The Unjust raggiunga questo raro obiettivo, seppur in maniera non perfetta. Il film, spesso descritto come un tetro dramma incentrato sui personaggi, in realtà riguarda più i rapporti tra i vari personaggi.
Ricordate quegli schemi che spiegano le dinamiche interne a un dramma televisivo attraverso frecce che dicono che A ama B che odia C che è stato sposato con D, che prima è stato lasciato da A, mentre B e D hanno una relazione? Ecco: il ritmo, la direzione e la forza di tali frecce sono quello che conta di più in The Unjust.
Se mettiamo un attimo da parte le incisive interpretazioni degli attori, ogni personaggio rappresenta comunque uno stereotipo, nel senso buono del termine. Il suo ruolo sociale, lavorativo e di classe continua a essere più rilevante dell’esistenza che conduce. Il personaggio deve agire e reagire secondo le regole del gioco. In questo senso, il film ricorda al pubblico quanto siamo strettamente collegati gli uni agli altri in questa rete di relazioni sociali, quanto difficile sia sfuggire a tale rete e, di conseguenza, come possa risultare fatale un piccolo inganno da parte di qualcun altro.
Anche se nessuno dei personaggi è molto piacevole, si percepisce la preoccupazione del regista per la tensione e il peso che hanno sulle loro spalle. Sarebbe tempo sprecato parlare della bravura con cui si è espresso ogni attore del cast, ma a questo punto non posso fare a meno di schierarmi per Ryoo Seung-beom. All’inizio, quando tormenta i suoi sottoposti, Ryoo pare esagerare un po’ in un’interpretazione che sta sul confine tra umorismo e isteria, ma ci si accorge presto che questa esagerazione fa parte del suo personaggio, e viene dalla tensione di dover mantenere questa specie di ruolo di quadro, e dal suo orgoglio di appartenere alla classe alta del potere. Il ritratto che Ryoo fa dell’arroganza, della maleducazione e della stanchezza che appartengono allo stereotipo del coreano di mezza età è sorprendentemente preciso.
In una delle scene, dopo aver dato in escandescenze di fronte al suo investigatore dall’onestà irritante, Joo Yang improvvisamente fa un respiro profondo, si calma e cerca di convincere il suo sottoposto con un tono di voce più suadente, come se avesse paura di perdere la dignità per una questione così da poco, ma solo per riprendere a gridare ancora più forte alla fine. Il linguaggio del corpo di Ryoo e il suo controllo dello spazio fra una battuta e l’altra mi ha fatto davvero venire la pelle d’oca, e posso dire in tutta franchezza che la sola interpretazione di Ryoo basta a incarnare il nucleo del film: la tensione che pervade tutte le relazioni sociali.