Un uomo vaga fra le montagne con una ferita sanguinante alla gamba, imbracciando un fucile. Sembrerebbe un fuggitivo che sta cercando di sottrarsi a ignoti inseguitori, ma sembra anche che sia lui a inseguire qualcuno. Quando si nasconde in una grotta solitaria, i ricordi del passato riaffiorano nella sua mente sfinita, e sono ricordi di vigliaccheria e fuga durate tutta la vita. Queste reminiscenze conducono alla ricostruzione di un pezzo di storia coreana del Ventesimo secolo, dall’occupazione giapponese fino alla Guerra di Corea, attraverso gli occhi di un intellettuale passivo o, in un certo senso, conformista.
Meglio conosciuto per Aimless Bullet, il “Quarto potere del cinema coreano”, il regista Yu Hyun-mok viene spesso erroneamente definito il padrino del cinema realista coreano. Anche se il vivace ritratto della società postbellica di quel film è inconfondibile, e anche se è vero che Yu ha trattato più volte pesanti questioni sociali nel corso della sua carriera, l’etichetta “realista” trascura a torto la vigorosa sperimentazione del linguaggio filmico da parte del regista.
In Flame, Yu sperimentò con la struttura narrativa, affidandosi ampiamente a flashback soggettivi. Sin dalle scene di apertura, il film ritarda la consegna “obiettiva” delle informazioni narrative: l’identità del protagonista, il movente delle sue azioni, il tempo e lo spazio dell’evento rimangono sconosciuti fino all’intervento dei flashback, i quali a loro volta non sono motivati dal discorso di testimoni o da testi scritti. Senza un dialogo esplicativo o un’azione indicativa, il film accentua la continuità di suoni e immagini per evocare i ricordi frammentari del protagonista (ricordandoci l’abilità di Bernardo Bertolucci di intrecciare il tempo ne Il conformista). Ogni flashback, inoltre, è formato da diverse scene separate, legate insieme dal flusso della coscienza piuttosto che dalla continuità spazio-temporale. E quando questa struttura “slegata”si combina alla luce espressionista, agli schemi cromatici e ai particolari angoli di ripresa tipici dell’opera di Yu, l’intera narrazione si converte in un montaggio di impressioni che prendono corpo nella mente di una persona.
Questa scenografia frammentata e retrospettiva rivela come la formazione del protagonista sia avvenuta nel bel mezzo di una profonda agitazione sociale. Anche se la narrazione copre diverse tragedie storiche, il film non indulge nel solito tema della “vittima innocente del contesto”. Nel presentare il panorama del suo passato, la narrazione porta il protagonista a rivedere il significato di ogni evento e la sua reazione ad esso, o il modo in cui ogni decisione lo ha formato o ne ha alterato la personalità. È certo che egli ha vissuto un po’ come un pacifista, senza l’intenzione di ferire nessuno e con l’unico desiderio di condurre un’esistenza tranquilla. Eppure, i frammenti del passato implicano che tale modesta ambizione di per sé poteva essere il risultato di tutta una serie di piccoli compromessi e rinunce che poi hanno condotto a compromessi e rinunce più grandi i quali, tirate le somme, lo hanno fatto fuggire dalla sua stessa vita. Ed è solo dopo questa disillusione che il protagonista può finalmente riscoprire le ragioni del suo agire, e continuare a vivere. Se la sua decisione finale sia davvero fruttuosa, non lo sappiamo e forse non è nemmeno il caso di chiedercelo.
Spesso mal interpretato come tipico lavoro di propaganda anticomunista realizzato per soddisfare i requisiti delle norme sulle importazioni, Flame continua a essere un capolavoro non per il fatto di aver giudicato una certa ideologia, o averne semplicemente abbracciata un’altra, bensì per il suo modo scrupoloso di sollevare alcune questioni: come possiamo inconsciamente tradire noi stessi in un momento di avversità? E con quale facilità una simile autogiustificazione può paralizzare le nostre vite? Il film è convinto che queste domande siano in grado di risvegliare le anime lacerate di un periodo buio e consentir loro di prendere per la prima volta in mano le redini della propria esistenza.
Hong Jiro