Sukiyaki è tratto da un fumetto di Tsuchiyama Shigeru, specialista nei cosiddetti manga gurume (“fumetti gourmet”). Il film non parla solo del piatto che gli dà il titolo, composto da fettine di manzo cotte in pentola con altri ingredienti e servito, solitamente, con uovo crudo: si tratta di una commedia drammatica, ambientata in prigione, decisamente insolita – anche se chiunque abbia familiarità con il rancio delle prigioni giapponesi potrebbe non trovarla tanto inverosimile.
La storia comincia nella Cella 204, con l’ingresso di un nuovo prigioniero, un apprendista yakuza tutto immusonito di nome Kurihara Kenta (Nagaoka Tasuku), condannato a tre anni per aggressione e percosse. I suoi compagni di cella – un ladro professionista (Katsumura Masanobu), un gigolo da nightclub (Ochiai Motoki) e un muscoloso ex lottatore di sumo (Gitaro) – sono tutti delinquenti incalliti, che mangiano il cibo disgustoso senza lamentarsi; e si prendono volentieri anche il suo, quando lui non riesce proprio a mandarlo giù.
Uno dei motivi del loro relativo appagamento, come impara ben presto Kenta, è un gioco che per loro è una sorta di rito annuale. Il giorno di Capodanno al carcere si mangiano piatti tradizionali, chiamati osechi, che costituiscono l’unico pasto decente di tutto l’anno. Prima del grande giorno i carcerati si raccontano storie sul pasto più memorabile della loro vita, e chi racconta la storia più bella può scegliere i bocconcini migliori dagli osechi dei suoi compagni di cella.
Questa competizione è un processo lungo ed estenuante, giudicato dal più anziano dei cinque prigionieri, Gosaburo (Maro Akaji), un tizio calvo con un’aria sacerdotale. Kenta trova che l’idea sia ridicola, ma proprio come la fame lo spinge a divorare del cibo che disprezza, le storie dei suoi compagni di cella lo attraggono. Anche lui, ovviamente, ha le sue storie, incentrate sulla madre che da tempo ha preso il largo (Tabata Tomoko) e sulla graziosa cameriera (Kimura Fumino) del suo locale di ramen preferito, che forse lo sta aspettando o forse no.
Per quanto possa non avere molto a che fare con la dura realtà della vita nelle prigioni giapponesi, la strategia del film funziona bene e funge da cornice non solo per continue gag, come i “glub” famelici che si sentono durante i racconti delle delizie del passato, ma anche per un essenzialissimo auto-esame. Le loro storie non parlano soltanto di una ciotola di ramen squisito o di un piatto di pesce alla griglia, ma raccontano le relazioni più importanti della vita di questi uomini.
Nella maggior parte delle loro storie a cucinare sono le donne, il che non è giusto, ma dato che a raccontare sono uomini soli chiusi in un carcere, è più che prevedibile.
Inoltre, nessuno degli alimenti citati nelle storie è del tipo descritto nelle riviste patinate di cucina: si tratta piuttosto di piatti semplici, che tutti i giapponesi conoscono, ma che alcuni imparano ad apprezzare solo dietro le sbarre.
Mark Schilling