The Woodsman and the Rain di Okita Shuichi si apre in una foresta di montagna, dove un boscaiolo sessantenne (Yakusho Koji) sta abbattendo un albero di grandi dimensioni. Molti registi avrebbero utilizzato un lavoro di montaggio o anche una controfigura per risparmiare fatiche e pericoli al proprio divo di mezza età. Invece, il regista Okita Shuichi ci mostra Yakusho mentre lavora duramente (con vere e proprie gocce di sudore a provarlo) e in piedi vicino all’albero quando cade.
Tutto ciò indica che il personaggio è il vero uomo di fatica, e che sia Yakusho sia Okita faranno molto più del loro dovere per rendere Woodsman straordinario, come infatti è.
La storia, però non è incentrata tanto sulla temerarietà dell’uomo maturo quanto su un insolito scontro tra culture e sulle sue conseguenze, che variano dal divertimento alle lacrime. Okita racconta con occhio asciutto ma mai cinico, in una miscela finemente equilibrata tra l’osservazione della vita vera e la narrazione.
Poco dopo che il boscaiolo, Katsuhiko, ha abbattuto rumorosamente il suo albero, un nervoso assistente alla regia (Furutachi Kanji) gli si avvicina per dirgli che nelle vicinanze si sta girando un film e gli chiede di fare silenzio. Questa richiesta non fa immediatamente presa nella mente di Katsuhiko (nel suo angolo di bosco le troupe cinematografiche sono più rare degli extraterrestri), ma ben presto l’uomo si ritrova ad aiutare i forestieri, che del posto in cui si trovano sanno poco più di quello che troverebbero su Google Maps.
Più seriamente, il regista principiante del filmaccio di zombie che stanno girando, Koichi (Oguri Shun), è quasi inebetito per la paura e l’indecisione, mentre il cast e la troupe lo considerano con malcelato disprezzo. Che cosa può fare per aiutarlo il riluttante Katsuhiko, che non sa nulla di cinema, ma che adora interpretare uno dei morti viventi?
La risposta coinvolge diversi elementi improbabili che Okita, Yakusho e Oguri (che ha diretto il suo primo lungometraggio, Surely Someday, nel 2010) plasmano perfettamente con ottimo materiale comico e drammatico.
Questo non significa che il loro film scorra come un olio: in effetti, come nel precedente film di Okita, la deliziosa commedia drammatica sul cibo The Chef of South Polar (2010), il ritmo è lento, persino sognante. Eppure, come dimostra la scena dell’abbattimento dell’albero, il film radica saldamente anche le scene più folli nel mondo reale (a voler considerare “reale” un set cinematografico).
Il film esercita inoltre un’intima attrazione emotiva rara nelle commedie drammatiche giapponesi, dove si va dalle stalle alle stelle e che finiscono invariabilmente con grandi sconfitte. Non solo Katsuhiko arriva a considerare Koichi come un figlio surrogato, ma le sue esperienze sul set gli fanno vedere con occhi nuovi il proprio vero figlio (Kora Kengo), uno scansafatiche che ha quasi la stessa età di Koichi, in una scena che di sicuro vi farà venire gli occhi lucidi.
Yakusho dimostra ancora una volta di essere il più versatile e adattabile degli attori giapponesi, interpretando il suo eroe operaio con un’autorevolezza spontanea e un’agilità sorprendente (scala le montagne come se l’avesse fatto per tutta la vita, o avesse trascorso mesi interi in palestra). Oguri poi maschera il suo aspetto da ikemen (bel ragazzo) con cui ha conquistato milioni di fan di sesso femminile con fiction televisive come Hana Yori Dango (Boys over Flowers).
Soprattutto, Woodsman si distingue per il profondo amore per il cinema, anche quando si tratta di un ridicolo olocausto zombie. Come ci ricorda Katsuhiko, con gli occhi lucidi mentre legge il copione di Koichi, si sprigiona una certa magia nel raccontare storie davanti alla macchina da presa, comprensibili a chiunque, anche a chi ha trascorso la sua vita nelle foreste invece che davanti a uno schermo. E pochi altri giovani registi giapponesi hanno saputo rendere la stessa magia con la forza quieta di Okita.
Mark Schilling