1925, Corea, montagna di Jirisan: Chon Man-deok (Choi Min-sik,
Oldboy) è un vecchio cacciatore, che ora è più o meno in pensione e vive con il figlio sedicenne Seogi (Seong Yu-bin,
Hide and Seek).
Un tempo era considerato il miglior cacciatore di tigri coreano, ma dopo che ha perso sua moglie a causa dell’ultima grande tigre della montagna Jirisan (soprannominata Signore della Montagna), ha appeso il moschetto al chiodo e tira avanti vendendo erbe. Intanto l’ufficiale giapponese Maezono (Osugi Ren, Hana-Bi, Exte: Hair Extensions), bramoso della preziosa pelliccia dell’animale, mobilita i suoi soldati quando un drappello di uomini che era a caccia di guerriglieri della resistenza antigiapponese viene massacrato dall’enorme bestia.
Quando il cacciatore Do (Jeong Man-sik, The Unjust), orribilmente sfregiato a causa di una vecchia schermaglia con la tigre, decide di provocarla per vendicarsi, si mette in moto tutta una serie di eventi che costringeranno Man-deok a imbracciare il suo vecchio fucile per un’ultima volta.
The Tiger era l’attesissimo sequel di New World (2013) del bravissimo sceneggiatore ormai regista Park Hoon-jung, che aveva come protagonista sempre Choi Min-sik, dal quale ci si attendeva un’interpretazione entusiasmante degna di un Grand Bell Prize. The Tiger in sostanza è un’allegoria un po’ anarchica sulla transizione forzata e traumatica della Corea verso la modernità, nella quale Man-deok e la grande tigre vengono presentati come due metaforici gemelli siamesi.
La prima metà del film, in cui vengono poco a poco presentate le abilità venatorie di Man-deok, il suo amore per il figlio Seogi, e le caratteristiche stagionali degli elementi naturali della montagna Jirisan, è piuttosto ben fatta e a tratti persino toccante.
La performance fisica impressionante di Choi Min-sik nei panni di Man-deok lo rende del tutto credibile come uomo semplice che appartiene alla natura, completamente privo di ambizioni sociali o avidità, debordante di un amore senza complicazioni per suo figlio e tuttavia capace di estremo e brutale autocontrollo quando abbatte la sua preda con una pallottola. Seong Yu-bin è altrettanto eccellente nel ruolo del figlio, tragicamente troppo intelligente per sentirsi soddisfatto del proprio destino.
D’altro canto, al pari di molti degli ultimi film coreani ambientati nel passato coloniale, i personaggi giapponesi (ma anche il collaboratore coreano) nel film sono semplicemente dei simboli. Dopo aver invitato un attore così esperto come Osugi Ren a interpretare un cattivo giapponese, Park delude per non essere riuscito a dargli un ruolo sufficientemente intrigante.
Il risultato tecnico del film non è esattamente magico, ma non è nemmeno da disprezzare: le tigri animate in computer grafica (con la supervisione della società di effetti speciali 4th Creative Party) sono impressionanti nei loro particolari fisici, nelle “espressioni facciali” e nei suoni, sebbene in alcune riprese ancora non sembrino animali veri. Il direttore della fotografia Lee Mo-gae (A Tale of Two Sisters, I Saw the Devil) e Kim Woo-hyung (The Front Line) alternano penetranti vedute di montagne ricoperte di neve allo splendore puro del fogliame oro e cremisi, facendo del loro meglio per dare credibilità ai momenti di realismo magico del film.
Purtroppo, a circa due terzi della storia Park perde la presa sulla narrazione e consente agli aspetti allegorici di prendere il sopravvento. E, quel che è peggio, il Signore della Montagna perde la sua effimera immagine di presenza misteriosa e quasi soprannaturale per iniziare a comportarsi più o meno come un animale della Disney.
È evidente che Park Hoon-jung si sente molto più vicino a The Tiger che ad altri suoi film, e sicuramente il film contiene ancora dentro di sé il nucleo di un film epico grandioso ma anche malinconico. Ciò che però serviva al film era un regista con una visione obiettiva precisa e misurata che fosse stato in grado di contenere, modellare ed espandere questo nucleo magmatico in un capolavoro costruito in modo efficace anche dotato di risonanza emotiva.
In questo senso, forse il Park regista ha ancora un po’ di strada da fare per eguagliare il suo notevole talento come sceneggiatore.