Fabricated City

C’è un senso di malizia nell’aria sin dall’apertura di Fabricated City di Park Kwang-hyun. Malgrado i suoi toni visuali cupi e un’atmosfera di inquietudine che incombe praticamente su ogni scena, sotto la superficie del film è presente anche una sorta di giocosità. Ma non è detto che si riesca a coglierla semplicemente leggendone la sinossi.

Il nostro protagonista, Kwon Yoo (il divo della televisione Ji Chang-wook, qui al suo debutto cinematografico) è un eroico giocatore di videogame online, che mostra intraprendenza, attitudine al comando e disponibilità a sacrificarsi per il bene dei suoi compagni di gioco. Nella vita reale, invece, è un perdente disoccupato che è stato estromesso dalla squadra nazionale di taekwondo per una rissa con un compagno di squadra. Kwon Yoo vive con la madre e la sua vita sembra non andare da nessuna parte finché, inopinatamente, prende una piega ancor peggiore. Dopo aver ricevuto una telefonata e avere esaudito quella che sembra essere una normale richiesta, il giovane si ritrova improvvisamente accusato di stupro e omicidio, con prove di polizia scientifica che appaiono schiaccianti. Kwon Yoo è stupefatto, sia per il modo in cui si ritrova incastrato, sia perché non capisce chi mai abbia potuto prendere di mira un tipo qualunque come lui.
La sua confusione non può che aumentare quando si vede dipinto come un mostro sulla stampa, e poi rapidamente condannato e sbattuto in cella con una condanna all’ergastolo senza possibilità di libertà provvisoria in futuro. Ma il plot di Fabricated City non è che all’inizio. Fra scampati pericoli, colpi di scena e tradimenti, ciascuno più stupefacente di quello che lo precede, Kwon Yoo si ritrova coinvolto in un’avventura decisamente più drammatica dei videogiochi ai quali adora giocare.
Forse andrebbe subito evidenziato che, per riuscire ad apprezzare Fabricated City, è necessario guardarlo con la prospettiva mentale giusta. La sua energia ipercinetica e l’approccio cyberpunk probabilmente sono più adatti per natura ai giovani, ma soprattutto, il film deve essere guardato apprezzando l’ironico senso di ribellione che ne costituisce il nucleo. Come molti film coreani recenti, si tratta di una storia sul potere e sull’ingiustizia sociale, ma invece dei soliti toni pesanti, disperati e fortemente moralizzatori che siamo abituati ad aspettarci, Fabricated City semplicemente mostra un bel dito medio all’uno per cento dominante. 

Il regista Park Kwang-hyun è stato a lungo lontano dagli schermi dopo il suo popolarissimo film d’esordio Welcome to Dongmakgol, vincitore del Premio del pubblico all’ottava edizione del FEFF. Nel decennio successivo, quello che doveva essere il suo nuovo film, il progetto fantascientifico d’azione ad alto budget Kwon Bob, è stato sul punto di entrare in produzione per diverse volte, ma ogni volta la cosa sfumava per tutta una serie di ragioni. Fabricated City può sembrare un ritorno inaspettato per il regista, col suo tono decisamente diverso da quello che abbiamo visto nella sua opera precedente. Ha i suoi punti deboli, certo, ma Park continua ad avere il dono di creare personaggi interessanti e a tratti molto divertenti, come la geniale hacker Yeo-wool che ha qualche strano problema di comunicazione (interpretata da Shim Eun-kyoung, che prestava la sua voce al robot in Sori: Voice from the Heart) e il malvagio al centro dell’azione, impersonato da Oh Jeong-se, che gli habitué del FEFF ricorderanno come interprete di How to Use Guys With Secret Tips, altro vincitore del Premio del pubblico. È questo genere di personaggi colorati e imprevedibili che in definitiva si dimostra il piacere più grande di Fabricated City.

Darcy Paquet
FEFF: 2017
Regia: Park Kwang-hyun
Anno: 2017
Durata: 126
Stato: South Korea

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