Jailbreak

Il rinascente cinema cambogiano ha ora il suo The Raid. Con Jailbreak, l’espatriato italiano Jimmy Henderson, già autore di un paio tra i più interessanti exploit del nuovo cinema commerciale khmer, Hanuman (2015) e The Forest Whispers (2016), ripropone la formula di un gruppo di agenti di polizia intrappolati in un angusto edificio, in questo caso una prigione, dove la via d’uscita si può trovare solo sconfiggendo torme di variegati e pericolosissimi nemici.

Il plot di quello che è stato annunciato come il “primo action movie cambogiano” è incentrato su una task force di quattro agenti di polizia, il franco-cambogiano Ly (interpretato dall’action star Jean-Paul Ly), Dara (Dara Our, già protagonista di Hanuman), Tharoth (Tharoth Oum Sam) e Sucheat (Dara Phang, che si riserva alcuni dei riusciti siparietti comici del film), che devono scortare il criminale Playboy (Savin Phillip). Playboy è stato arrestato in quanto leader della banda Butterfly, una gang tutta composta da pericolosissime criminali. Ma al fine di ridursi la pena Playboy è pronto a confessare l’identità del vero capo della gang, Madame (Céline Tran, ex pornostar franco-vietnamita, nota nell’ambiente del cinema per adulti come Katsuni).

Quest’ultima, ovviamente, scatena la sua vendetta. All’interno della prigione di Prei Klaa, dove Playboy viene condotto, uno dei leader dei criminali incarcerati, Bolo (Siriwudd Sisowath), una volta incaricato di far fuori Playboy, scatena una rivolta, che porta al caos totale all’interno dell’istituto penitenziario. Oltre al gruppo di Bolo, nei corridoi del carcere, si aggirano quindi altri criminali assetati di sangue: la banda rivale di Scar (Rous Mony, che il pubblico di Udine ricorderà come protagonista maschile del precedente film cambogiano presentato al FEFF, The Last Reel di Kulikar Sotho), uno psicopatico cannibale (Eh Phoutong, particolarmente appassionato di lobi d’orecchi e che “un giorno era così affamato che s’è mangiato le proprie palle”) e un assassino di colore (Laurent Plancel). Quando il gruppo di agenti arriva al carcere, il marasma è già in corso e tra celle e corridoi sarà ben dura cercare di recuperare Playboy (che di suo fa di tutto per nascondersi) e uscire vivi dall’edificio.

Lo schema drammaturgico di Jailbreak è chiaramente un all-action dove l’intreccio è un mero pretesto per inanellare una sequela di sequenze di combattimento. Non stupisce che, in occasione della sua uscita in Cambogia, per promuoverlo sia stato lanciato un videogame per smartphone. Come in altri recenti B-movie di successo, dal sud est asiatico e non solo, l’azione di Jailbreak è costruita difatti come una serie di livelli da superare; ad ogni livello, un differente nemico si frappone tra l’eroe/gli eroi e il raggiungimento del suo/suoi obiettivi. Una volta superato un livello, si sale ad un livello ancor più difficile. In The Raid, tale costruzione era marcata anche dal letterale processo di ascensione nell’edificio. In Jailbreak, il movimento è più scomposto, meno evidentemente leggibile e localizzato e pure un po’ ripetitivo, per via dei set invariati, celle e corridoi del carcere. Ma le sequenze di combattimento sono ineccepibili. Utilizzando al meglio il talento dei suoi interpreti, Henderson combina e alterna diverse arti marziali, dall’MMA al bokator (l’arte marziale tradizionale cambogiana). Il risultato è adrenalinico ed estremamente fluido. In questo, il lavoro sul montaggio dello stesso Henderson (con Amit Dubey) contribuisce in maniera decisiva.

Contributo ulteriore al ritmo galvanizzante e inarrestabile del film lo danno la colonna sonora (composta da un altro italiano, Fabio Guglielmo Anastasi) e le canzoni del duo rap cambogiano Kmeng Khmer. Questa proficua interazione tra il cinema e la musica popolari (nonché quella con le nuove tecnologie) conferma e sancisce la vitalità di un’industria commerciale cambogiana che potrebbe riservare ulteriori buone sorprese negli anni a venire.
Paolo Bertolin
FEFF: 2017
Regia: Jimmy Henderson
Anno: 2017
Durata: 92
Stato: Cambodia

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