Si può sostenere tranquillamente che Old Boy di Park Chan-wook è il film che per primo ha portato alla ribalta internazionale il cinema coreano, in particolare il cinema di genere. Old Boy è il secondo capitolo della cosiddetta “trilogia della vendetta” di Park (gli altri due capitoli sono Mr. Vendetta e Lady Vendetta). Si tratta di un film iconico e la sua iconografia, che non ha nulla a che vedere con nessun altro film coreano moderno, ricorda Quentin Tarantino, i fratelli Wachowski, Tom Twyker, Miike Takashi e Guillermo del Toro, coloro che hanno contribuito a modellare il moderno cinema di genere come lo conosciamo oggi. In effetti Tarantino era Presidente della Giuria a Cannes quando il film è stato presentato in concorso e ha vinto il Gran Premio. Old Boy è stato un precursore dell’attuale rinascita del cinema di genere, popolarissimo in festival cinematografici dedicati al fantastico in tutto il mondo, e, naturalmente, anche in questo stesso festival.
A tredici anni di distanza, Old Days di Han Sun-hee è un viaggio minuzioso e informato nella memoria, che racconta la realizzazione di questo film fondamentale e spiega in che modo un giovane regista e il suo team siano riusciti, inconsapevolmente, a realizzare un film che ha innalzato il cinema sudcoreano a livelli mai raggiunti prima tra il pubblico internazionale. In origine il film era stato commissionato come contenuto extra per il Blu-ray celebrativo di Old Boy che stava per uscire, ma vista la grande ricchezza di informazioni, comprese le interviste a tutti i principali attori e un punto di vista da addetti ai lavori sulla produzione del film, i produttori hanno ritenuto che valesse la pena di farne un documentario a dimensione di lungometraggio.
Particolarmente succosa è l’intervista alla venditrice internazionale del film, Suh Young-joo della Finecut, che ha rivelato come il film avesse avuto una proiezione di mercato al MIFED, l’ormai defunto mercato del cinema e dell’audiovisivo di Milano, al quale partecipò uno dei selezionatori del festival di Cannes. Alla fine il film venne invitato nella sezione Un Certain Regard, ma ben presto fu promosso al concorso principale.
Naturalmente nel documentario ci sono lunghe interviste al regista Park e al protagonista Choi Min-sik, che interpreta Oh Dae-su, mentre visitano vecchie location a Busan e a volte interagiscono con fan eccitatissimi, firmando autografi e facendo selfie con loro. Una parte molto interessante riguarda la realizzazione della famosa scena del martello che doveva essere girata in un’unica sequenza: Choi era sfinito dopo oltre sedici riprese, ma a quanto pare così aveva voluto il regista, che voleva tiragli fuori la giusta interpretazione, per la quale doveva essere fisicamente ed emotivamente esausto. Le interviste migliori comunque sono quelle fatte con i vari membri anonimi della troupe, e tutte le loro diverse manie e input creativi che hanno contribuito alla creazione di Old Boy. I contributi più divertenti sono probabilmente quelli degli assistenti alla regia di Park, che sembrano personaggi di un film di Hong Sang-soo, e che spesso proponevano soluzioni interessanti e di basso profilo per scene chiave del film, facendo molte volte loro stessi da cavie per testare attrezzature o oggetti di scena (assicurandosi persino che Choi potesse entrare dentro una valigia, ad esempio, provandola prima).
Quel che Old Days fa meglio, però, è evidenziare quanto possa essere banale e talvolta ordinario il processo cinematografico. Eppure, quella produzione apparentemente facile è andata fuori dai binari molte volte, per sforamenti di costi, giornate di lavorazione aggiunte al programma di produzione o puro e semplice sfinimento del cast e della troupe per le innumerevoli riprese notturne. Old Boy avrebbe potuto fare la fine di tanti irrilevanti film di genere, che finiscono poi tra i DVD in offerta speciale a pochi soldi. Invece, al di là della banalità del lavoro e dei tanti ostacoli, c’era anche una tempesta perfetta di determinazione e orgoglio, nel loro lavoro, che ha dimostrato come la produzione sia stata davvero un lavoro di squadra, per realizzare uno dei massimi punti di riferimento del cinema coreano moderno.
Anderson Le