Soo-rin è una ragazza, smilza, indipendente, ma solitaria, che dopo la perdita della madre vive con il patrigno impresario edile. Dopo aver traslocato su una piccola isola a causa del lavoro del patrigno, la ragazza viene avvicinata da un simpatico orfano, Sung-min. Riconoscendo l’indole creativa ed empatica del ragazzo, Soo-rin coltiva l’amicizia con lui; i due per comunicare tra loro condividono una serie di codici linguistici segreti. Un giorno Sung-min e i suoi amici Jae-wook e Tae-shik decidono di esplorare una grotta in montagna legata a un mito locale che ricorda vagamente il racconto americano di Rip Van Winkle. Soo-rin decide di seguirli, malgrado le obiezioni dei ragazzi. Quando entrano nella grotta vi scoprono inaspettatamente quello che sembrerebbe un grande uovo di dinosauro e Sung-min decide di spaccarlo. Pochi minuti dopo, quando Soo-rin ritorna indietro per raggiungere i ragazzi, scopre che sono svaniti nel nulla...
Vanishing Time: A Boy Who Returned sembra essere stato costruito principalmente per lo stesso segmento di pubblico femminile giovane che ha lanciato Werewolf Boy (2012) di Jo Seong-hee nella stratosfera del botteghino. Sfortunatamente per le previsioni del box office coreano, però, questo nuovo film non è riuscito ad attirare folle in cerca di un fantasy piacevole. Ciò non significa che non colpisca emotivamente: aveva semplicemente dei fini diversi. Senza voler essere consapevolmente “realistico”, il regista Um Tae-hwa illustra con grande efficacia il profondo senso di isolamento che la giovane Soo-rin prova nei confronti del resto del mondo. Gli adulti nel film non sono malvagi, mancano semplicemente di immaginazione e non sono disposti a modificare la propria visione del mondo ancorata al buon senso. Alla fine, queste riflessioni pessimistiche se non addirittura del tutto sconfortate rappresentano il nucleo identitario del film, piuttosto che i suoi attesi piaceri leggeri e di genere.
Il trattamento degli aspetti apertamente fantastici di Vanishing Time da parte di Um merita molti elogi. Gli effetti speciali sono realizzati eccezionalmente bene, con alcune intelligenti regole che mirano a spiegare il nuovo mondo dal tempo sospeso in cui i ragazzini si ritrovano (la mia scena di computer grafica preferita, realizzata con la supervisione di Macrograph, mostra Tae-shik incastrato in un tubo fatto di bolle statiche e circondato dalle pareti blu dell’acqua del mare).
Vanishing Time trae anche vantaggio dal suo eccellente cast. C’è qualcosa di decisamente affascinante nel ritratto semplice che Shin Eun-su traccia della tredicenne alta e tenace Soo-rin. I suoi scambi con Lee Hyo-je riguardo la perdita delle rispettive madri, ad esempio, sono molto intensi ma completamente privi di aspetti stucchevoli. Gang Dong-won, che quest’anno ha compiuto 36 anni, è probabilmente uno dei pochi attori coreani attuali in grado di rendere l’idea di un tredicenne intrappolato nel corpo di un adulto in modo dolorosamente e autenticamente credibile senza rendere il suo personaggio decisamente inquietante o farlo sembrare un barboncino triste. Tra i comprimari, una menzione speciale va a Um Tae-gu, il fratello del regista, che nel ruolo di Tae-shik adulto conferisce la sua peculiare intensità spigolosa e intransigente al personaggio di un altro individuo fuori dal tempo – che all’inizio sembra avere la scorza più dura di quella di Sung-min, per poi rivelarsi più vulnerabile alla solitudine cosmica con cui è costretto a venire a patti.
Mi sarebbe piaciuto che il regista Um avesse dedicato un po’ più di tempo alla sceneggiatura, per risolvere alcuni problemini (non si scopre mai esattamente cos’è che ha causato il blocco del tempo, ad esempio, e se l’oggetto che i ragazzi trovano è davvero l’uovo di una creatura mitica: questi dettagli sembrano semplicemente trascurati più che deliberatamente lasciati nell’ambiguità). Tuttavia, Vanishing Time si sviluppa come un piccolo e poetico fantasy. Il suo sapore letterario è quello di un autore maturo che guarda, con grande compassione ed empatia, all’infanzia trascorsa a lottare per superare il senso di isolamento. Si tratta di un gusto amaro e per certi versi triste di liquirizia e anice.
Kyu Hyun Kim