Lo straordinario film di debutto della giovane regista Wang Lina è un film apparentemente per ragazzi ma nella migliore tradizione di questo genere cinematografico mostra già una notevole maturità stilistica e nasconde osservazioni sociologiche destinate ad un pubblico adulto che sappia leggere tra le righe. Wang Lina, di etnia Han ma nata e cresciuta nel Xinjiang, aveva originariamente intenzione di girare un documentario sui bambini del suo villaggio natale di Xayar popolato principalmente dall’etnia Uighur di religione musulmana. Nel corso, però, delle riprese durate un anno il film ha gradualmente assunto la forma di una storia fittizia, affidata comunque a situazioni reali e girata senza una sceneggiatura vera e propria con protagonisti che fondamentalmente interpretano se stessi – i personaggi del film portano i nomi degli attori che li interpretano ed il rapporto tra il film e la realtà che rappresenta è strettissima.
La narrazione ruota attorno alle esperienze di Isa, un bambino con una madre malata, un padre distante emotivamente ed un fratello maggiore che sta per lasciare il villaggio per andare all’università. Nonostante sia ancora bambino Isa ha già responsabilità da adulto: deve occuparsi della madre, diventata sordomuta a causa della meningite e che tende a scomparire da casa se non è tenuta sotto controllo, del gregge, perché il padre è al lavoro lontano dal villaggio, e contemporaneamente frequentare regolarmente la scuola ed imparare il putonghua – cinese mandarino, lingua ufficiale del Paese il cui studio è materia scolastica obbligatoria e la cui padronanza è ritenuta l’unico mezzo di emancipazione sociale ed economica in una comunità in cui gli adulti parlano a malapena la lingua nazionale. Gli unici momenti di svago sono legati alla presenza dei suoi amici del cuore, la piccola Kalibur ed il suo fratellino Alinaz, figli di una coppia che coltiva il cotone ed a cui sono affidati alcuni dei dialoghi più interessanti ed anche divertenti del film. Attraverso il rapporto tra questi bambini, le loro famiglie e la disciplina richiesta dalla scuola, il film affronta obliquamente e senza prendere una posizione ideologica compromettente temi importanti come la graduale scomparsa della lingua – e quindi cultura – dell’etnia Uighur, l’abbandono dei villaggi rurali per la vita di città, l’importanza dell’educazione come mezzo di ascesa sociale, la gerarchia sociale tradizionale nelle comunità di religione musulmana ed il gap generazionale che è sentito anche in tali comunità.
Il titolo del film prende spunto da una lezione a scuola, in cui ai bambini viene insegnato che “ognuno deve imparare a dire addio”, e la storia di Isa, costretto a separarsi prima dalla madre e successivamente dal fratello, dagli amici che sono mandati a studiare putonghua in una scuola cittadina, e persino da una piccola capretta che aveva adottato, è costellata da molti momenti dolorosi, che lo costringono suo malgrado a crescere in fretta. La malinconia che pervade il film è resa ancora più struggente da una fotografia superba con immagini molto suggestive che capitalizzano sulla bellezza e sulla luce del paesaggio desertico in cui si svolge la storia, da una colonna sonora particolarmente interessante e da interpretazioni di straordinaria naturalezza. Grazie alla dimestichezza della regista con i luoghi in cui si svolge la storia e l’affetto palese per i suoi protagonisti, A First Farewell evita la trappola del tipico film del genere “minoranze nazionali” o del documentario paesaggistico di propaganda e diventa un tributo poetico ad un modo di vita che sta scomparendo: questo forse è l’addio implicito e più definitivo a cui il titolo del film si riferisce.
Maria Barbieri