I coniugi Jo Nam-bong (Lee Soon-jae, Stand by Me) e sua moglie Lee Mae-ja (Jung Young-sook, Be-Bop-A-Lula) condividono un angusto appartamento con il loro figlio Jin-soo (Cho Han-cheul), la nuora Kim Jeong-hee (Bae Hae-sun) e la nipotina Eun-ji (Lee Ye-won). I soldi sono pochi, ma mentre Nam-bong, Jeong-hee e persino Mae-ja trovano un lavoro, Jin-soo non fa che bere con gli amici e sognare di ottenere un lavoro in ambito accademico.
Un giorno Mae-ja si sente male mentre sta facendo la permanente alle vicine di casa. Fa una visita da un neurologo e scopre di essere affetta da demenza vascolare. Dopo un episodio violento in cui si scontra col marito in merito alla morte della loro figlia, Nam-bong insiste per farla ricoverare, ma ben presto si accorge di quanto lei sia infelice e decide di riportarla a casa. È a quel punto che si accorge di soffrire anche lui della stessa malattia debilitante. Jeong-hee, preoccupata per l’incolumità di Eun-ji, prende la bambina e se ne va. Jin-soo fa lo stesso poco tempo dopo, lasciando gli anziani genitori da soli a provvedere a sé stessi.
Malgrado la trama convenzionale, Romang non è mai noioso né poco originale: ad esempio, quando le loro condizioni peggiorano, i due anziani scoprono che devono comunicare lasciandosi bigliettini a vicenda durante i loro fuggevoli momenti di lucidità. Improvvisamente il film diventa come Il Mare (Lee Hyeon-seung, 2000) con i due protagonisti che si (ri)uniscono e crescono nell’amore reciproco. Il realismo abbandona la storia quando il film si concentra sulla vita privata dei due protagonisti. Mentre questo rifiuto della verosimiglianza può imbarazzare o irritare alcuni spettatori (il figlio e sua moglie non chiamano né vengono a trovarli, la nipotina non si rende conto che il suo smartphone è sparito, nessun amico o vicino si ferma a chiacchierare con loro o passa a trovarli), Lee sembra fornire alla coppia (e al pubblico) una necessaria per quanto illusoria tregua dalla sofferenza – esattamente come Kim Tae-yong consente ai disgraziati amanti del suo Late Autumn (2010) un pomeriggio di felicità cinematografica, o Leo McCarey concede agli anziani genitori di Cupo tramonto (1937) alcune meravigliose ore insieme, le ultime prima di un tragico finale.
La fotografia di Lee Jung-in toglie il respiro, soprattutto negli ultimi venti minuti del film. Il cast è di prima qualità, con Cho, forse il più sottovalutato attore coreano, che ci consegna una straordinaria interpretazione con la consueta affidabilità, malgrado gli sia stato dato un ruolo così ingrato. Le sue scene di crollo emotivo sono caratterizzate da una straziante intensità realistica.
In Corea l’opera prima del regista Lee ha ricevuto qualche moderata critica per il suo trattamento piuttosto tradizionale di un argomento familiare, ma è stata anche apprezzata per le interpretazioni di rilievo e la splendida fotografia. Lee e Jung, che sono entrambi delle leggende, hanno alle spalle quarant’anni di carriera a testa e quindi il pubblico che ha familiarità con il cinema e le serie tv coreani probabilmente sentirà un’affinità emotiva particolarmente forte con il film. È forse a causa di tale familiarità, giacché i volti dei divi (soprattutto quello di Jung, la cui eterea bellezza è impareggiabile) emanano la stessa intensità di sempre, che quando la storia del film si sposta brevemente in un centro per anziani lo spettatore diventa acutamente consapevole che quella che si sta svolgendo sullo schermo è inequivocabilmente una performance. All’ingresso dell’edificio, un’anziana donna (una vera ospite del centro?) siede su una sedia a rotelle e guarda direttamente nella macchina da presa, senza batter ciglio; il suo sguardo, al contempo sconvolgente (le comparse hanno sempre l’obbligo di non guardare direttamente la macchina da presa) e toccante (lo spettatore continua a chiedersi se il suo sguardo esprima tristezza, confusione, solitudine, o semplicemente torpore), comunica molto più sulle crisi che gli anziani devono affrontare, in Corea come altrove, di qualunque interpretazione.
R.L. Cagle