Gli esperimenti illegali di un’industria farmaceutica su studenti e barboni vanno a finire male: i soggetti sottoposti ai test prima muoiono e poi ritornano dalla morte. Uno di tali soggetti (Jung Ga-ram) si avventura inavvertitamente nel villaggio di Poonsang dove incontra una famiglia del tutto inconsueta: Jun-geol (Jung Jae-young, On the Beach at Night Alone) e la moglie incinta Nam-joo (Uhm Ji-won, Missing) gestiscono una equivoca stazione di servizio, estorcendo ai viaggiatori esorbitanti quantità di denaro per riparazioni di danni relativi a incidenti che loro stessi hanno provocato. I loro soci in affari comprendono il padre di Jun-geol, Man-deok (Park In-hwan, Miss Granny), e la scorbutica sorella minore Hae-geol (Lee Su-gyeong). Quando Man-deok viene morso dallo zombie e si ammala, il fratello laureato Min-geol (Kim Nam-gil, Memoir of a Murderer) si rende conto che c’è qualcosa che non quadra per niente. Min-geol cerca di eliminare lo zombie ma la sorellina Hae-geol ha un’opinione diversa: a quanto pare ha sviluppato un forte attaccamento per il forestiero, lo chiama “Jong-bi” e gli prepara un giaciglio nella stalla, vicino al suo coniglietto.
The Odd Family ha avuto la sua buona dose di aspre critiche: i recensori hanno stroncato il film considerandolo poco divertente e indicando come sua principale debolezza l’uso di formule preconfezionate. È esattamente il contrario: lo spiritoso uso di riferimenti ad altri film, in particolare a The Host (Bong Joon-ho, 2006), A Werewolf Boy (Jo Sung-hee, 2012) e Train to Busan (Yeon Sang-ho, 2016), (l’ultimo dei quali salta fuori addirittura come forma sullo smartphone di uno dei personaggi), suggerisce un’autoconsapevolezza che si eleva ben oltre quella della maggior parte di film e programmi televisivi sui morti viventi che, con allarmante regolarità, hanno iniziato a spuntare come funghi sin dall’inizio del millennio.
Degno di nota è anche il taglio indubbiamente progressista che viene dato alle questioni di genere. In questo film, infatti, spesso e volentieri sono le donne a risolvere i problemi, utilizzando qualunque mezzo si ritrovino a portata di mano. Nam-joo, in particolare, si rivela brava a trasformare gli strumenti quotidiani tradizionalmente usati dalle donne (una scopa, un bollitore per il riso, una padella) in armi micidiali. Mentre invece è il desiderio frenetico dei maschi del villaggio di rinnovare la propria virilità a scatenare un enorme disastro.
La scenografia e la fotografia sono assolutamente di prim’ordine. I colori vivaci dell’ambientazione e il tono brillante delle luci sono degni delle produzioni in Technicolor. È particolarmente rilevante anche il modo in cui il regista fa uso delle inquadrature: parecchie volte durante la storia la macchina da presa arretra per rivelare personaggi che si muovono da un lato all’altro dell’inquadratura, creando una reminiscenza visiva di qualcosa che si potrebbe vedere su uno zootropio o qualche altro antiquato dispositivo di visualizzazione. In altre scene è la macchina da presa a muoversi per catturare, uno alla volta, i diversi elementi di una scena più ampia. Praticamente ogni sequenza del film presenta un’inquadratura nell’inquadratura: finestre di garage, muri, cornici di porte, specchi, che aiutano tutti a riportare l’attenzione su elementi specifici dell’immagine. Come pura esperienza visiva, il film è un’assoluta delizia. La colonna sonora è particolarmente efficace e crea atmosfere a volte toccanti, a volte umoristiche; un esempio degno di nota è la scena in cui uno spettacolo di fuochi d’artificio si trasforma da un’esibizione di terrore e carneficina in un momento davvero toccante di nostalgia e pace. Infine, le performance di tutti gli attori – compresi quelli secondari – sono perfettamente adattate al materiale: in parte frenesia di zombie da fumetto, in parte storia romantica adolescenziale.
Per ottenere il massimo dal film, come in ogni thriller, si suggerisce agli spettatori di guardarlo dall’inizio alla fine, informandosi il meno possibile sulla sua trama.
R.L. Cagle