European Premiere | In Competition | White Mulberry Award Candidate
Guest star:
Sasha CHUK, director
Hong Kong è sempre stata una città di immigrati. Anche se ha una forte cultura locale, le radici della maggior parte della popolazione si trovano nella regione del Guangdong.
Tuttavia, la cultura contemporanea dominante in città non è stata gentile con gli immigrati arrivati dalla Cina continentale negli anni Novanta, quando sono state allentate le restrizioni. Gli uomini erano spesso raffigurati come dei sempliciotti sprovveduti, mentre le donne venivano dipinte per lo più come lavoratrici del sesso o avide cacciatrici di dote. Per quanto siano all’origine di alcuni ottimi film pieni di empatia, le storie della diaspora cinese a Hong Kong sono state raccontate per lo più dagli hongkonghesi.
Ora che la generazione dei figli degli immigrati dal continente è diventata adulta, può raccontare l’esperienza dell’immigrazione a Hong Kong secondo la propria prospettiva.
La sceneggiatrice e regista Sasha Chuk appartiene a quella generazione e se è vero che il suo primo lungometraggio, Fly Me to the Moon – adattamento di un suo racconto breve del 2018 – è soprattutto un’opera di finzione, nella sua esplorazione dell’identità e delle radici attinge direttamente alla sua vita.
Il film racconta in tre atti la storia di una famiglia di immigrati nel corso di 20 anni. Nel 1997 la piccola Lin Tsz-yuen, di appena otto anni, arriva a Hong Kong per ricongiungersi con il padre, Min (un brillante Wu Kang-ren). Non solo Yuen si trova ad affrontare le difficolta legate al suo essere una straniera che non parla una parola di cantonese ma in più Min è un tossicodipendente e un ladro, che passerà la vita dentro e fuori dal carcere.
Le cose però migliorano quando arriva in città la sorellina Kuet e la famiglia è di nuovo al completo. Il nucleo familiare è il tema dominante di questa sezione; è anche l’unico momento in cui la famiglia Lin appare nella sua forma completa e questo sottolinea l’amarezza della sua successiva frammentazione. Chuk sottolinea il tema della famiglia con il titolo cinese del film, che recita “Possano essere benedetti con la longevità”, tratto dall’ultimo verso del Prelude to Water Melody di Su Shi, ispirato a sua volta dalla nostalgia provata da Su in occasione del Festival della Luna (o festival di metà autunno), giorno tradizionalmente dedicato alle riunioni familiari nella cultura asiatica. Anche se Chuk non lo dice esplicitamente, il rammarico delle sorelle per il padre spesso distante determina il tono malinconico del film.
Il secondo atto, che è anche il più convincente, è ambientato nel 2007 e descrive la difficile adolescenza delle due sorelle. La diciottenne Yuen (Yoyo Tse) scopre l’amore per la prima volta con un ragazzo che somiglia al padre, mentre Kuet (Natalie Hsu) cerca di sopprimere il proprio background di immigrata quando i compagni di classe discriminano apertamente uno studente immigrato. Allo stesso tempo, entrambe le sorelle affrontano anche la dura realtà della duplice e irrisolvibile identità del loro genitore: un tossicomane sfaticato che vorrebbe anche essere un padre amorevole.
Il terzo atto chiude il cerchio sul tema dell’identità: mentre Kuet (Angela Yuen) è completamente assimilata nella sua patria adottiva come attivista per la conservazione del territorio locale, Yuen (interpretata dalla stessa Chuk) preferisce trascorrere il suo tempo all’estero come guida turistica, eternamente intrappolata in un limbo culturale. Chuk respinge abilmente la narrazione stereotipata della diaspora cinese così come viene descritta dalla cultura locale tradizionale, utilizzando le vite divergenti delle sorelle per mostrare come le loro radici non definiscano quello che diventano da adulte.
Sotto la guida dei produttori – i registi Stanley Kwan (Centre Stage, Rouge) e Jun Li (Drifting) – Chuk dirige con mano sicura, utilizzando uno stile sobrio che opta per le sfumature e la quiete. Considerando la produzione impegnativa che ha costretto Chuk a lavorare con un budget limitato (è un progetto del First Feature Film Initiative, dopotutto), a girare in esterni in Giappone, a insegnare al cast a recitare nel dialetto dello Hunan nativo di Chuk e a trascorrere una considerevole quantità di tempo davanti alla telecamera, Fly Me to the Moon è un’opera prima davvero notevole.