MISSIONE IMPOSSIBILE 3: LA MISSIONE DIVENTA ANCORA PIÙ IMPOSSIBILE. IL CINEMA FILIPPINO NEL 2002

Nonostante l’impegno della Presidentessa Macapagal- Arroyo per un’amministrazione più etica rispetto a quella del suo predecessore (l’ex Presidente Joseph Ejercito Estrada, non altrettanto moralmente attento), la produzione e l’interesse per il cinema a contenuto sessuale sono continuati nel 2002. Vediamo perché. Il governo ha i suoi problemi, analoghi a quelli che aveva Marcos negli ultimi anni del suo regime: scarsa credibilità, limitata fiducia degli investitori, instabilità politica e sociale. Le due amministrazioni però non dovrebbero essere messe sullo stesso piano: tanto per cominciare, la Macapagal-Arroyo non ha alle spalle venti anni di governo dittatoriale. Ma se dall’interno del suo regime dovesse parlare con la gente, scoprirebbe che il senso di frustrazione e di smarrimento (ormai completamente fuori controllo) non sono poi così diversi. Se lo facesse, probabilmente scoprirebbe anche l’utilità di un’industria cinematografica dal guinzaglio allentato con discrezione. Il regime dei Marcos alla fine aveva scoperto che censurare i film significava più la fatica che il guadagno, per non parlare della cattiva pubblicità che ne derivava a livello internazionale. Nel giro di due anni la Macapagal- Arroyo ha cambiato tre presidenti del Comitato per la Classificazione e la Valutazione dei Film e della Televisione (MTRCB o, in parole povere, la censura). Si spera che con il quarto presidente si calmi; ed è giunta probabilmente ad una conclusione analoga. Il regime dei Marcos considerava i film utili nel senso panem et circenses: date al pubblico ciò che vuole (sesso) e il pubblico sarà troppo distratto per ribellarsi. Gli anni Ottanta videro quindi la realizzazione di alcuni dei più bei film erotici filippini: Init sa Magdamag (Midnight Passion, 1983); Boatman (1984); Scorpio Nights (1985). Quando la Macapagal-Arroyo si insediò alla presidenza dichiarò che la questione morale era una delle priorità della sua agenda e, per dimostrare la sua serietà, appoggiò il divieto del film erotico con pretese artistiche di José Javier Reyes Live Show (2001). Oggi non si azzarda a dire nemmeno una parola a proposito della riforma morale nella sua amministrazione, tanto meno nell’industria cinematografica. Ma non si tratta solo del governo e del tenore della sua leadership. L’economia depressa, il morale preoccupante del pubblico, il senso di impotenza e di timore sono simili a quelli che si avvertivano negli anni Ottanta. Gli studios hanno scoperto che la maggior parte degli altri generi cinematografici (film drammatici, d’azione, fantasy, horror) aveva risultati scarsissimi, con un botteghino indifferente. Il sesso rappresentava l’invito più allettante e sicuro, per l’investimento iniziale relativamente modesto (i novellini sono infatti una risorsa per i film erotici filippini: la carne fresca è più a buon mercato e più attraente). Queste sono le cause della recente rinascita del sesso nel cinema filippino. È l’ennesimo ritorno; conservatorismo e liberalismo sembrano susseguirsi ad ondate, secondo la moda politica del momento. Ora il trend politico impone di rivolgere l’attenzione altrove, su problemi più importanti come la corruzione nel governo, la guerra al terrorismo, le prossime elezioni. Nessuna nuova, buona nuova, e gli studi cinematografici reagiscono di conseguenza. La pratica più recente consiste nell’assumere uno stilista visivo per dare al film un certo splendore artistico. Basti pensare a Erik Matti, la cui opera prima Scorpio Nights 2 (1998) fu un grande successo. Matti ha fatto pratica sotto Peque Gallaga, regista dell’originale Scorpio Nights, ed esibisce le stesse debolezze e le stesse virtù: un debole per le immagini patinate associato al disprezzo per la narrazione coerente (sebbene, nello Scorpio originale, la storia fosse piuttosto semplice, l’ambientazione sufficientemente coraggiosa e la sensualità abbastanza intensa da trascendere questa debolezza). L’ultimo film di Matti, Prosti, abbreviazione di “prostituta”, presenta la fresca Aubrey Miles, ed è tutto luci soffuse e corde di violino, echi di In the Mood for Love. E’ la storia di una prostituta che si innamora del suo protettore in un bordello. Yam Laranas è un caso interessante: ha lavorato come operatore per Raymond Red, grande regista indipendente di cortometraggi, e a un certo punto ha avuto Matti come mentore. La sua fotografia mostra l’influenza di Red, con il suo lirismo disinvolto e i colori sfacciati. Sfortunatamente, i suoi film Balahibong Pusa/Pussy Hairs (2001) e Radyo (Radio, 2001) sono narrati in modo abborracciato e poco originali: Pusa prende a prestito il climax dal capolavoro di Mike de Leon Kisapmata (Blink of an Eye, 1981) ma senza la credibilità psicologica di quel film. Il suo film più recente, Hibla (Thread) vede una ragazza di campagna (Rica Peralejo, forse la prima ragazza filippina di provincia a ostentare delle grossolane protesi al silicone) e una ragazza di città (Maui Taylor, una seduttrice adolescente non meno sciatta) separate da bambine, che si rincontrano adulte. Continua in modo prevedibile, incoerente, sfoggiando le due atroci interpretazioni, fino ad un climax mirabilmente sciocco nel quale gli amanti delle due ragazze si sfidano in un incontro di wrestling davanti ad una capanna che non vuol saperne di bruciare del tutto. Anche in Gamitan di Quark Henares (che si potrebbe tradurre con “Il giocattolo”) ci sono scemenze simili, come quando Maui Taylor (al suo debutto nei panni di ochetta sexy) e il suo amante fanno a pezzi un cadavere. Ma Henares ha il buon senso di ammetterne la stupidità e non ha la pretesa di fare dell’arte. Fa un uso intelligente dello split screen e di bizzarre angolature di ripresa, più un’eclettica colonna sonora, per aggiungere un po’ di ironia a una sceneggiatura per il resto ordinaria, che vede una collegiale vergine trasformarsi in letale seduttrice. Henares è un neofita, Matti e Laranas lavorano solo da pochi anni. Joel Lamangan gira film dagli anni ’80 e l’ultimo, Bahid (Stain), non è molto diverso dalla maggior parte delle sue opere più commerciali: melodramma, sesso e un substrato di rabbia alimentata dalla coscienza di classe. Dina Bonnevie è la vittima di uno stupro che si innamora e sposa un generale in pensione (Eddie Garcia), un rispettabile vecchio mostro che non disdegna di torturare un prigioniero occasionale o di stuprare la sorella minore della moglie (Assunta de Rossi). Lamangan dimostra di avere cuore e sensibilità. E’ stato prigioniero politico durante il regime di Marcos ed è tutt’ora un attivista impegnato. Se solo fosse un regista migliore... Bahid ha un cuore politicamente corretto al posto giusto, senza essere un grande melodramma: le interpretazioni sono impostate con un tono troppo stridulo, le riprese sono frenetiche e incoerenti, il finale pare scopiazzato dal racconto The Most Dangerous Game. Così come non posso fare a meno di ammirare Lamangan, non riesco a farmi piacere la sua opera. Ma il regista merita tutto il mio rispetto. Maryo J. delos Reyes, altro regista collaudato, non è estraneo al film sexy: recentemente ha realizzato Paraiso ni Efren (Efren’s Paradise, 1999) e Red Diaries (2001). Entrambi i film presentano del sesso ben orchestrato, ma la narrazione non è altrettanto concertata. Il suo Laman (Flesh) è una vera sorpresa. Si tratta di un noir erotico di poche pretese ma convincente, su un ingenuo probinsyano (provinciale) che si trova invischiato in una relazione a quattro con sua moglie, il suo migliore amico e la sua padrona. Delos Reyes gioca con la grana della pellicola e con il montaggio per ottenere un’immagine attuale come i cineasti “rivoluzionari” sanno fare, ma con il grande vantaggio di una storia sensata (nessuna fantastica premessa incoerente, nessuna capanna eternamente in fiamme). Ed ha anche la fortuna di un ottimo cast: Oropeza e Martinez sono indovinati nei panni della vecchia coppia amorale e alquanto decadente, Servo e de Leon si distinguono per la loro interpretazione fresca e genuina. E’ un segno dei tempi che film come Hibla, Gamitan e Prosti vadano a gonfie vele mentre Laman langue al botteghino. La spiegazione comune è che nei tre film citati recitano donne che i filippini si porterebbero volentieri a letto: pelle chiara, aria innocente, seni prosperosi (perlopiù rifatti). Per contrasto, la Lolita de Leon di Laman ha un bel seno naturale ma sembra troppo proletaria, ha la pelle troppo scura, a quanto pare, per infiammare le fantasie maschili. Colpa del casting troppo accurato. Il pubblico che negli anni Ottanta affollava le proiezioni di Scorpio Nights e Boatman aveva in mente qualcosa in più della carne “meticcia”, cercava uno sfogo al suo nichilismo e alla sua disperazione, e in quei due film (consciamente o inconsciamente) trovava un’espressione efficace. Il medesimo stato d’animo sarà stato prevalente anche quest’anno, ma sfortunatamente non c’era lo stesso livello di talenti a dare una risposta adeguata. Cos’altro c’era nel 2002? Ben poco, in termini di lungometraggi filippini di valore. American Adobo di Laurice Guillen è uno spettacolo di assoluta sicurezza, e abbastanza divertente, sui filippini d’America. Nell’esplorazione della loro psiche e del loro spirito inquieto, non è assolutamente all’altezza dell’“epica” di cinque ore di Lav Diaz (le virgolette sono d’obbligo trattandosi di un film così intimista) dal titolo Batang West Side (West Side Avenue, 2001), ma esibisce l’astuta propensione commerciale di Guillen, con esiti positivi. Però esiste la propensione commerciale ed esiste l’ispirazione, che Lav Diaz mi è sembrato possedere in gran quantità in Hesus Rebolusyunaryo (Jesus Revolutionary), uscito a febbraio. Ambientato nel futuro, tra undici anni, il film immagina una giunta militare che prende il potere nelle Filippine, e la sola speranza per il futuro è Hesus (e chi altri?), poeta, guerriero, filosofo, rocker. Il festival Pelikula a Lipunan 2002 della Movie Welfare Worker’s Fund ha presentato il bel documentario di Aureaus Solito Basar Banar, sulla lotta contro gli arraffatori di terreno dell’isola di Palawan e, come tributo all’attrice filippina Nida Blanca, scomparsa di recente, una serie delle sue commedie musicali, compresa l’incantevole Waray-Waray (Visayan Lass, 1954). Il Cinemanila Film Festival 2002 di Tikoy Aguiluz non ha mostrato nessun lungometraggio mainstream degno di esser visto, ma ha presentato una panoplia di cortometraggi e lungometraggi indipendenti, tra i quali sono stati premiati i corti Batingaw (Bell) e Lolo’s Child (Grandfather’s Child) di Lawrence Cordero, e il documentario di Minnie Solomon Crouse The Case of Wilki Duran Monte: Toxic Chemical Victim. Il festival ha organizzato anche un concorso di sceneggiatura al quale hanno partecipato 150 candidati, tra scrittori esperti, pezzi grossi della letteratura e principianti assoluti. Il primo premio è stato vinto da due sceneggiature promettenti: Cut di James Ladoray, una brillante satira sulla bellezza e la chirurgia plastica, e Hocloban di Mario O’Hara, il racconto epico sovrannaturale dell’uccisione del generale-governatore Ferdinand Bustamante. Uno degli eventi più emozionanti dell’anno non è un film ma un’opera teatrale, o meglio, l’adattamento del classico di vita dei bassifondi Insiang di Lino Brocka del 1976. Con l’aiuto del Tanghalang Pilipino (Teatro Filippino) del Cultural Center of the Philippine, Mario O’Hara ha preso la sceneggiatura del film di Brocka, l’ha rimaneggiata un po’, ha aggiunto un po’ di magia decostruzionista, ha riportato l’ambientazione nel luogo originario (Pasay City e non Tondo) e ha ritoccato il finale per renderlo più cupo e più alieno da compromessi. In effetti, O’Hara ha preso quello che molti considerano il capolavoro di Brocka e lo ha reclamato come suo. Il 2002 si è chiuso con un Metro Manila Film Festival (tradizionalmente tenuto in dicembre) più stravagante del solito. Il film più interessante del festival è stato probabilmente Dekada ’70 (Decade ‘70) di Chito Rono, che parla di una madre (Vilma Santos) e della sua famiglia che cercano di sopravvivere sotto il regime di Marcos. Il film non rende pienamente giustizia al classico romanzo di Lualhati Bautista, anche se la sceneggiatura l’ha scritta lei stessa, ma regge bene da solo come vivido ritratto ben realizzato degli anni della legge marziale, della paura, degli arresti improvvisi, degli assassinii irrisolti.
Noel Vera