IL VERO GIAPPONE: ICHIKAWA JUN

Quali sono i film in cui è possibile vedere il “vero Giappone”? La risposta, a detta degli stessi giapponesi, è stata per lungo tempo: l’opera di Ozu Yasujiro. È lì che essi trovano quel che potrebbe essere definita la parte migliore dello spirito giapponese: nella compassione di Ozu per la fragilità umana e nel suo rispetto per la dignità degli uomini. I dirigenti della Shochiku, la casa di produzione di Ozu, notoriamente ritenevano che i suoi film fossero “troppo giapponesi” per gli occidentali e non li presentavano nemmeno ai festival cinematografici stranieri, e questo in un periodo nel quale Kurosawa Akira e Mizoguchi Kenji venivano acclamati all’estero come nuove rivelazioni. I più famosi tra i film di Ozu, compreso il suo capolavoro del 1953 Tokyo Monogatari (Viaggio a Tokyo), sono incentrati sulla famiglia del ceto medio. Il padre, interpretato da Ryu Chishu, è solitamente un benevolo dirigente amministrativo o professore universitario, mentre la figlia o la nuora, interpretata da Hara Setsuko, è una giovane donna istruita, di buone maniere e perennemente sorridente: insomma, un angelo che sa battere a macchina. Quando Ozu faceva questi film, dalla fine degli anni Quaranta fino ai primi anni Sessanta, milioni di giapponesi aspiravano a quel tipo di vita colto e agiato che essi descrivevano. Che la realtà per molti fosse assai diversa, era evidente a uno degli aiuto registi di Ozu, Imamura Shohei, che proveniva egli stesso dalla classe media ma aveva vissuto tra gli abitanti della Tokyo mizushobai, il “mondo fluttuante” aspro e imbevuto di sesso dei bar, cabaret e club. Nei propri film, Imamura esplorava queste e altre comunità esterne alla classe media (o escluse da essa), dove sentiva ancora vivo il vero spirito giapponese. Sebbene più giovane di Imamura di quasi una generazione, Ichikawa Jun sembrerebbe trovarsi decisamente dalla parte di Ozu, di cui è un fan dichiarato. Il suo film del 1995, Tokyo Siblings (Tokyo Kyodai), è un vero e proprio omaggio a Ozu, a partire dal titolo; altri dei suoi sedici film per il grande schermo sono influenzati da Ozu, tanto nelle tematiche quanto nella stilistica, se non sono addirittura basati sull’opera del maestro. In Dying at a Hospital (Byoin de Shinu to Iu Koto, 1993), che egli considera il suo film più “Ozuesco”, Ichikawa non solo mantiene fissa la macchina da presa nelle scene di interni, una tecnica tipica di Ozu, ma introduce nella sua storia di morte e di perdita un senso di mono no aware (il pathos della vita) che era il marchio distintivo di Ozu - anche se, data la sua ubiquità nella cultura giapponese tradizionale, Ozu non ne aveva certo l’esclusiva. Ichikawa, che già aveva una carriera di successo come regista di spot pubblicitari televisivi prima di realizzare il suo primo lungometraggio BUSU, nel 1987, si oppone però a essere catalogato come seguace di Ozu. Innanzitutto, egli tratta raramente l’argomento principale di Ozu, la dissoluzione della famiglia del ceto medio, mentre, come Imamura, sceglie spesso come soggetti per i suoi film coloro che appartengono alle fasce marginali della società, se non addirittura al mondo della malavita: la ragazza astiosa che lotta per la sopravvivenza in una caotica scuola superiore in BUSU; il fratello e la sorella che vivono insieme come una “famiglia” in Tokyo Siblings; i fumettisti dalla vita stentata in Tokiwa: The Manga Apartment (Tokiwaso no Seishun,1996); il vagabondo di mezza età che ritorna a casa in Tokyo Lullaby (Tokyo Yakyoku, 1997); gli attori comici, marito e moglie, che bisticciano in Osaka Story (Osaka Monogatari, 1999); o ancora, la ragazza solitaria alla disperata ricerca d’amore in Tokyo Marigold (2001). Dal punto di vista stilistico, è difficile vedere in Ichikawa un emulo di Ozu. Per Dying at a Hospital, lui e il suo cameraman Kobayashi Tatsuhiko hanno percorso le strade di Tokyo per centinaia di ore per filmare di nascosto la gente comune mentre fa le cose di ogni giorno. Ichikawa ha poi montato queste riprese in un ritratto composito che può forse cogliere un senso “Ozuesco” del valore della vita, ma lo ha fatto in un modo che Ozu non aveva mai immaginato. In Tadon and Chikuwa (Tadon to Chikuwa, 1998), film che ha segnato una brusca rottura con il suo periodo “Ozuesco”, Ichikawa ha ritratto il crollo emotivo di un tassista logorato (Yakusho Koji) e di un romanziere frustrato (Sanada Hiroyuki) con orrori generati al computer e schizzi surreali di sangue multicolore. L’intento era quello di commentare con humour noir lo stato psicologico della nazione, di nuovo usando strumenti che non si vedono nell’opera di Ozu. Sebbene Ichikawa si sia spinto spesso oltre le convenzioni del realismo, l’essenza del suo stile rimane una sensibilità particolare non solo per il colore e la composizione (come Kurosawa Akira, è stato pittore prima di diventare regista), ma anche verso uno sguardo e un gesto significativi. Alcuni registi cercano di tratteggiare nelle loro inquadrature la verità e la bellezza, e finiscono per offrire delle cartoline illustrate. Ichikawa, invece, preferisce catturarle al volo o di nascosto, come un fotoreporter o un fotografo della natura. C’è, forse, una sorta di garbo nella sua visione. Con Ozu condivide l’affetto per i suoi personaggi, anche per quelli insipidi, ma in lui c’è ben poco del sentimentalismo endemico che si rileva tra i seguaci umanisti di Ozu, mentre c’è molta osservazione lucida. Laddove altri registi esagerano o presentano uno stereotipo, Ichikawa semplicemente vede. In Giappone Ichikawa sta a metà tra il campo commerciale e il campo critico, dato che non è né un abile strappalacrime come Yamada Yoji - il kohai (seguace) di Ozu che ha avuto maggior successo con la Shochiku - né un trasgressore spigoloso delle convenzioni di genere come Kitano Takeshi. Eppure, continua a realizzare un film all’anno, e a sfornare spot pubblicitari che servono a pagare i conti. Inoltre, a partire da Tadon and Chikuwa, Ichikawa continua a rompere consapevolmente con la sua immagine jimi (tranquillo, semplice), con risultati molto diversi. Il suo dramma del 2001, Tokyo Marigold, interpretato dalla giovane attrice più in voga del momento, Tanaka Rena, ha fatto incetta sia di incassi che di premi, ed è stato anche il film di Ichikawa più visto all’estero in video sottotitolati e DVD. Il film successivo, Ryoma’s Wife, Her Husband and Her Lover (Ryoma no Tsuma to Sono Otto to Aijin, 2002), è stato la sua prima collaborazione con lo sceneggiatore di successo Mitani Koki (Welcome Back, Mr. McDonald e Our House), oltre che il suo primo dramma storico, un genere che era moribondo e che ora invece sta ritornando in auge. Il film però si è rivelato un guazzabuglio, con il vaudeville alla Neil Simon di Mitani che cozzava contro le composizioni cromatiche e luminose alla Vermeer di Ichikawa. Dopo questa schermaglia con il cinema mainstream, Ichikawa è ritornato all’ovile della produzione indipendente con Tony Takitani, un film tratto da un racconto di Murakami Haruki su un ragazzo che si ritrova con il nome per nulla giapponese di Tony, datogli dal padre jazzista, e che è costretto a convivere con le conseguenze derivanti da un simile nome. Girato in esterni con un set che è un palcoscenico coperto, con le montagne che si vedono sullo sfondo, Tony Takitani ricorda Dogville di Lars Von Trier. Diciassette anni dopo aver rappresentato un lavoro teatrale dentro un film, in BUSU (il classico kabuki Yayoya Oshichi) Ichikawa ritorna alle origini. Ma ormai non è più jimi. Filmografia vedi pagina a fronte
Mark Schilling