L’OPERA DI PECHINO, L’OPERA RIVOLUZIONARIA E JIANG JIE

Jiang Jie è un adattamento cinematografico dell’omonima opera rivoluzionaria cinese. Quest’opera in parte cantata e in parte recitata, composta nel 1964, è rappresentativa di una forma operistica nuova all’epoca, basata su una sintesi tra l’Opera di Pechino ed elementi musicali occidentali, che divenne il modello scenico standard durante la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (1966-1976). L’Opera di Pechino (jingju), che costituisce solo una delle centinaia di varianti operistiche regionali cinesi, è una forma di arte totale, una sintesi di canto, recitazione, esibizione acrobatica, danza e performance strumentale. Gli interpreti, che indossano costumi facilmente identificabili e ricoprono ruoli molto tipizzati, si esibiscono in un’azione altamente stilizzata cantando arie basate su una scala ben definita di melodie e formule. Li accompagna una piccola orchestra con strumenti a percussione (tamburi, gong e cembali) e a corda, sia pizzicata (yueqin) che suonata con l’archetto (jinghu, erhu). Gli storici cinesi fanno risalire la nascita dell’Opera di Pechino alla Dinastia Qing (1644-1911), e più precisamente alla celebrazione dell’ottantesimo compleanno dell’Imperatore Qianlong nel 1790. In quell’occasione si esibirono diverse compagnie operistiche della provincia di Anhui e i loro stili musicali finirono per combinarsi in quella che è diventata l’Opera di Pechino. Partendo da origini provinciali populiste, tale modello scenico fu infine accettato alla corte imperiale, dove il sostegno entusiasta dell’Imperatrice Madre Cixi ne istituzionalizzò il patrocinio da parte dell’élite. Durante l’“epoca d’oro” dell’Opera di Pechino, nel primo periodo repubblicano cinese, all’incirca tra il 1910 e il 1937, questa forma godette di grande popolarità e creatività. Le “pop star” che imperavano in quel periodo erano i quattro grandi dan dell’Opera di Pechino, vale a dire interpreti maschili che impersonavano giovani donne: Mei Lanfang, Cheng Yanqiu, Xun Huisheng e Shang Xiaoyan, ognuno dei quali creò uno stile interpretativo che si è mantenuto fino ad oggi. All’inizio del XX secolo, al repertorio tradizionale di favole storiche e mitologiche si aggiunsero storie moderne in abiti contemporanei, attente al sociale. Tali opere di attivismo sociale progressista anticiparono i cambiamenti imposti all’Opera di Pechino dalla rivoluzione comunista del 1949. Le opere di tipo tradizionale prosperarono dopo la rivoluzione fino al 1963; nel 1964 praticamente sparirono, per essere sostituite dalle “otto opere modello” (yangbanxi), che divennero famose (o tristemente famose, a seconda del punto di vista estetico e politico) durante la Rivoluzione Culturale. Quando il presidente Mao si lamentò che il palcoscenico cinese era dominato da “imperatori, re, generali, cancellieri, letterati e belle donne”, le opere tradizionali furono bandite per essere sostituite da un nuovo genere destinato a creare modelli eroici proletari che dovevano “servire le masse (proletarie)”. Questa teoria condusse a una riduzione del repertorio alle “otto opere modello”, che avrebbero monopolizzato l’interpretazione musicale sia teatrale che radiofonica per i dodici anni successivi. Non c’è accordo tra gli studiosi, tanto che forniscono un elenco di opere modello che va da otto a quindici. Esse furono selezionate, sviluppate, riviste e sostenute da Jiang Qing, la potente moglie di Mao, che in quel periodo fu anche commissario alla cultura. Il suo patronato ricorda quello di Cixi: è stata la seconda volta che una potente leader donna è intervenuta con forza nella storia operistica cinese. Sotto il rigoroso controllo di Jiang Qing (che fa pensare al monopolio sull’interpretazione operistica concesso nel XVII secolo dal monarca francese Luigi XIV al compositore di corte Jean-Baptiste Lully, in un momento della storia delle arti dello spettacolo altrettanto controllato sul piano ideologico), tali opere modello e brani tratti da esse - oltre a due balletti modello e una sinfonia modello - erano gli unici brani musicali che potevano essere eseguiti in Cina. Gli esempi più famosi comprendono The Legend of the Red Lantern (Hong deng ji), Taking Tiger Mountain by Strategy (Zhiqu weihushan) e Shajiabang. Due erano i tipi di storia consentiti nell’opera modello, entrambi finalizzati a promuovere modelli per la continua educazione e ispirazione ideologica: narrazioni esaltanti di eroici comunisti cinesi in lotta per la rivoluzione e vicende edificanti di eroi dello stesso genere nella resistenza agli invasori giapponesi. Gli attori indossavano costumi moderni e la rappresentazione divenne più realistica, pur mantenendo propri elementi ritualizzati. La musica fu sottoposta a cambiamenti complessi e ricchi di fascino, che combinavano una base dell’Opera di Pechino tradizionale con diverse innovazioni importate dalla pratica musicale contemporanea e da quella romantica occidentale: uno stile canoro più moderno, soprattutto nell’estensione vocale, elementi di armonia e cromatismo occidentali (in particolare nei preludi e negli interludi) e l’introduzione di strumenti occidentali (ottoni, archi). Malgrado, o forse a causa, della completa monopolizzazio-ne dello spazio musicale della Repubblica Popolare Cinese da parte delle opere modello, esse divennero estremamente popolari. Il pubblico (ossia chiunque fosse esposto in Cina a radio, televisione, teatro o cinema) imparava a memoria le arie; molti cinesi di età compresa tra i 40 e i 60 anni le sanno cantare ancora oggi. Jiang Jie, nella forma, nello stile e nel contenuto, è un’opera rivoluzionaria nello stile ufficiale approvato da Jiang Qing; però, per ragioni politiche complesse, non è mai riuscita a entrare nell’elenco approvato delle “opere modello”. La storia di una giovane agente clandestina comunista che si sacrifica alla vigilia della proclamazione della Repubblica Popolare per salvare le vite dei suoi compagni rivoluzionari è esemplare. La musica è fra le più belle che l’opera modello possa offrire e il personaggio di Jiang Jie interpreta diverse arie raffinate da applauso a scena aperta. Ma, piuttosto che poggiare su una pirotecnia vocale teatrale e una declamazione istrionica, la sua musica insinua una sensibilità lirica stupenda, straordinariamente morbida e delicatamente modulata, entro una serie di stili che ufficialmente erano piuttosto circoscritti. Raffinati tocchi strumentali occidentali conferiscono, in momenti della narrazione particolarmente commoventi, il carattere pentatonale della musica (notevole l’effusione degli ottoni alla maniera di Kurt Weill, che erompono brevemente per decrescere altrettanto velocemente). Anche i personaggi secondari hanno stili musicali propri ben caratterizzati, compresa l’immediatezza rustica degli attivisti contadini e la teatrale esagerazione dei poliziotti cattivi. Tratta dal popolarissimo romanzo La roccia rossa (che vendette ben otto milioni di copie), la creazione di Jiang Jie nel 1967 ebbe l’attenta supervisione di Jiang Qing. Per prepararsi, i cantanti visitarono persino il luogo in cui l’opera era ambientata, la vecchia prigione del Kuomintang a Chongqing, per immergersi nell’atmosfera autentica della vicenda. Qualcosa però andò storto, tanto che prima del suo debutto l’opera scomparve improvvisamente. In un articolo, il segretario di Mao la criticò definendola eccessivamente ideologica, “senza storia, senza dramma, puramente concettuale”. Ma probabilmente si trattava solo di una copertura per le reali obiezioni mosse al lavoro, che avevano a che fare con le lotte tipicamente velenose all’interno del partito durante la Rivoluzione Culturale. In queste lotte la vera Jiang Jie era rimasta coinvolta con la fazione di Deng Xiaoping (futuro leader cinese, che però nel 1967 era la bestia nera numero uno per i leader radicali del paese). Alla fine, comunque, l’opera venne riabilitata; attualmente viene spesso associata con il rituale bon mot del presidente Mao, il quale, dopo averla vista, pare avesse “sospirato con grande emozione e rimpianto ai suoi collaboratori: ‘Perché non possiamo riportare in vita Jiang Jie? Perché non abbiamo mandato le nostre truppe a salvarla?’”. Le mode cambiano: la fine della Rivoluzione Culturale fu subito seguita dalla rinascita dell’opera tradizionale, compresa l’Opera di Pechino, negli anni Ottanta. Ma dal momento che il sostegno statale era stato ritirato, e che un panorama mediatico popolare molto più liberale forniva abbondanti alternative, il pubblico si è ridotto sempre di più. Anche i gusti culturali cambiano. Un tempo derisi da musicologi e storici culturali che li definivano pura propaganda e, nel peggiore dei casi, arte kitsch, la musica, la pittura e il teatro della Rivoluzione Culturale sono recentemente stati oggetto di recupero e di una rivalutazione critica davvero auspicata. Ora è possibile avvicinarsi a opere come Jiang Jie per quello che sono. Se si ascolta con orecchie davvero aperte, è possibile individuarvi qualcosa di davvero straordinario: un conflitto esteticamente sovraccarico e intensamente risoluto tra idealismo e ideologia, bellezza e formalismo, arte e politica, libertà e repressione. C’è davvero molto in gioco in queste opere: esse sono una finestra su un periodo della storia cinese ancora dolorosamente irrisolto, uno specchio dei dilemmi più critici che i nostri mondi si trovano ancora ad affrontare.
Shelly Kraicer