Nel 2006 l’industria cinematografica giapponese è riuscita in quella che un tempo era considerata una missione impossibile: una quota di mercato maggioritaria. I film nazionali hanno incassato 905 milioni di dollari americani, vale a dire il 53,3% dell’incasso totale al box office, che è stato di 1,7 miliardi di dollari. La prodezza, dopo ben tre decenni di dominio hollywoodiano, è stata ancor più impressionante perché non è stato un solo blockbuster a dominare, com’era accaduto con Spirited Away (La città incantata), la pellicola di animazione di Miyazaki Hayao che nel 2001, con un incasso di 251 milioni di dollari, aveva portato da sola la quota del mercato nazionale al 39%.
Stavolta, invece, gli incassi hanno avuto una distribuzione più uniforme: su 417 film giapponesi usciti nelle sale, sei hanno superato i 5 miliardi di yen (42 milioni di dollari), secondo i dati dell’EIREN (l’associazione dei produttori cinematografici giapponesi). Nel complesso, sono stati 28 i film giapponesi che hanno raggiunto o superato l’incasso di 1 miliardo di yen (8,4 milioni di dollari), cifra che, per convenzione, contrassegna un successo di botteghino in Giappone.
Commentando la rinascita, il presidente dell’EIREN Matsuoka Isao ha detto ai giornalisti che “Un tempo, i film erano il simbolo di un’industria in declino e nessuno ci avrebbe investito del denaro. Ora, però, essi rappresentano il contenuto più importante del Giappone”. Il campione di incassi, con 64 milioni di dollari, è stato il film di animazione Tales From Earthsea (Gedo Senki) , tratto dall’omonima saga fantasy di Ursula K. LeGuin. Il film ha segnato anche il debutto alla regia di Miyazaki Goro, figlio del maestro dell’animazione Hayao. Sebbene ampiamente criticato da una parte della stampa (un sondaggio dei critici sulla rivista Eiga Geijutsu lo ha votato come peggior film del 2006), Tales From Earthsea ha beneficiato dell’immagine di marca che lo Studio Ghibli di Miyazaki si è costruito negli anni con i suoi film di animazione amati dal grande pubblico.
Dopo di Tales From Earthsea al botteghino c’erano: il film d’azione in mare Umizaru 2: Test Of Trust (Limit Of Love Umizaru, con 59,6 milioni di dollari), la commedia corale di Mitani Koki Suite Dreams (The Utchoten Hotel, con 51 milioni di dollari), il film catastrofico Sinking Of Japan (Nippon Chinbotsu, con 44,8 milioni di dollari), il thriller soprannaturale Death Note: The Last Name (con 43,7 milioni di dollari) e un’epopea marina durante la Seconda Guerra Mondiale, Yamato (Otokotachi no Yamato, con 42,7 milioni di dollari). I primi dieci film della classifica giapponese sono stati tutti prodotti da consorzi di media, con le reti televisive in un ruolo preponderante, e otto di loro sono stati distribuiti dalla Toho, il grande gorilla (o meglio Godzilla) dell’industria cinematografica giapponese. Ma per i cineasti nipponici non tutto è rose e fiori. Dei 417 film usciti nel 2006 (100 in più rispetto a solo tre anni prima), la grande maggioranza non è riuscita a coprire i costi con l’uscita in sala. Molti altri hanno avuto la peggio nella spietata competizione per approdare ai 3000 schermi nazionali e non sono neanche arrivati nei cinema. Non si possiedono dati certi sul totale di film realizzati in Giappone lo scorso anno, ma 700 sembra essere una buona stima. Molte delle produzioni che al botteghino sono risultate deludenti, come Nana 2, sequel dell’omonimo film di amicizia tra ragazze che era stato un successone nel 2005, pur essendo state reclamizzate come imperdibili, non hanno avuto un riscontro di pubblico. E questo malgrado imponenti campagne pubblicitarie e una grossa base di pubblico appassionato alla materia d’origine, che nel caso di Nana 2 era un fumetto di grande successo. “Quel che è accaduto è che la produzione è stata gonfiata un po’ troppo, e ora si sta leggermente contraendo”, ha commentato Sekiguchi Yuko, caporedattore della storica rivista di cinema giapponese Kinema Junpo. “L’industria cinematografica ha la necessità di cercare strategie diverse”.
Un genere che deve cercare questo cambiamento è quello del dramma romantico, molto in voga all’inizio dell’attuale boom produttivo nel 2003, ma che da allora ha subito un calo per colpa dei produttori che si sono affrettati a portare sugli schermi strappalacrime di livello mediocre se non pessimo. “Continuano a realizzare sempre lo stesso tipo di film, e il pubblico è stufo”, afferma Sekiguchi.
Un altro problema per i produttori è la stagnazione del mercato dei DVD, che in passato ha risollevato le sorti di diversi film. I guadagni sono resi ancor più difficili dal numero sempre maggiore di titoli che affolla gli scaffali. Intanto, i sequel, i remake e i film tratti da bestseller, da videogiochi e fumetti che dominano Hollywood stanno imperversando, per le stesse ragioni, anche nei multisala giapponesi. Vale a dire, le reti televisive e altri colossi del mondo dei media che sostengono tali film lo fanno perché, in un mercato difficile, preferiscono andare sul sicuro, dato che i budget continuano a salire. Sta infatti crescendo il numero di film che, come il successo di azione fantasy del 2007, Dororo, e quello epico su Genghis Khan The Blue Wolf (Aoi Okami), supera la barriera dei 2 miliardi di yen (17 milioni di dollari), un tempo considerata eccezionale, il che significa che è necessario incassare almeno il doppio affinché i produttori possano recuperare il denaro investito - cosa non facile nemmeno con un mercato locale forte.
Le case di produzione sono quindi più ansiose che mai di vendere i film nel mercato internazionale, cosa che un tempo invece rivestiva un’importanza secondaria. Il network TBS, a capo del consorzio che ha prodotto Dororo, ha venduto il film in oltre venti paesi stranieri. La Universal ne ha acquistato i diritti per il Nord America e ha anche manifestato interesse per i due sequel del film, attualmente in fase di realizzazione, e questo ha consentito alla TBS di aumentare fiduciosamente il budget complessivo dei due sequel, portandolo a 6 milioni di yen (50 milioni di dollari). Intanto Genghis Khan, alla fine del Festival di Berlino, in febbraio, era già stato venduto a 60 paesi, di cui 11 in Asia e 49 tra Europa e Medio Oriente. Alla prima giapponese, il 22 febbraio scorso, il produttore Kadokawa Haruki ha proclamato di volere che il film fosse visto da 100 milioni di persone in tutto il mondo.
Maggiori budget e incassi, naturalmente, non sempre significano film migliori. Ma fra tanti prodotti preconfezionati, ci sono film commerciali interessanti che riescono ancora a infilarsi nei multisala. Uno di questi era Hula Girls, il dramma di Lee Sang-il su una troupe di danza hawaiana, che è stato votato miglior film dell’anno dai critici di Kinema Junpo e ha vinto quattro Japan Academy Awards, tra i quali quello per il miglior film e la miglior regia. Hula Girls è stato anche un successone per il distributore indipendente Cine Quanon, con l’incasso di 11,8 milioni di dollari. La storia, quella di una troupe locale di danza hawaiana che porta nuovo orgoglio e nuova speranza a una cittadina mineraria che sta morendo, riecheggia il successo di Mark Herman del 1996 Brassed Off (Grazie, signora Thatcher), e anche quello del 2004 di Yaguchi Shinobu, Swing Girls. Tratto da una storia vera, Hula Girls si è tuttavia allontanato dalle distinzioni di genere, con il suo mix ben dosato di realismo coraggioso, energia giovanile ed erotismo hawaiano filtrato dalla sensibilità giapponese.
Un altro successo del tutto inaspettato è stato Memories Of Matsuko (Kiraware Matsuko no Issho) di Nakashima Tetsuya, che ricorda Chicago negli appariscenti numeri musicali e nell’immagine stilizzata, ma trasgredisce la formula hollywoodiana dell’happy ending in maniera spettacolare. Un destino infelice non è infrequente per le eroine del cinema giapponese, ma Nakashima ha ribaltato le convenzioni giapponesi di genere celebrando il gusto di Matsuko per la vita con un’esuberanza sgargiante assistita dalla computer graphics, invece di imboccare la solita strada in cui l’eroina recrimina melodrammaticamente sulla propria esistenza infelice seppur ricolma d’amore. Il film ha poi dato vita a una serie televisiva della TBS, e la diva Nakatani Miki ha fatto incetta di premi, compreso un Japan Academy Award come miglior attrice, per la sua interpretazione di Matsuko.
Persino i tanto dileggiati film tratti dai manga hanno prodotto opere che possono anche rispecchiare i fumetti ai quali si ispirano senza per questo imitarli pedissequamente, bensì utilizzandoli in modo creativo. Uno di questi è Dororo, la versione di Shiota Akihiko del manga classico di Tezuka Osamu. Il film segue la storia principale del manga, quella di un giovane guerriero bionico (Tsumabuki Satoshi) che cerca di recuperare 48 parti del suo corpo che il padre, un signore della guerra, ha ceduto ai demoni in cambio del potere. Ma l’esuberante ladra che diventa sua compagna di viaggio, interpretata da Shibasaki Kou, non è il bambino del manga di Tezuka, bensì una donna adulta. Questo cambiamento trasmette al film una carica sessuale che il manga non possiede e che Shiota sfrutta efficacemente per ottenere effetti tanto comici quanto drammatici. Malgrado si tratti di un divertente film per ragazzi (è troppo pauroso per i più piccini), Dororo è realizzato tenendo d’occhio anche il pubblico adulto. Le varie creature mostruose, ad esempio, sono un gruppo fantasiosamente variegato, che spazia da un demone-ragno dall’agilità agghiacciante fino a un mostro comicamente goffo che sembra riportare nostalgicamente alle vecchie serie televisive piene di tokasatsu (“effetti speciali”).
Per quel che riguarda questo genere, tuttavia, i film che hanno riscosso il maggior successo di pubblico nel 2006 sono stati i due Death Note. La vicenda è quella di uno studente universitario brillante ma perverso che trova un misterioso quaderno che porta la morte a chiunque il cui nome vi venga scritto. Tratto da un fumetto di successo, scritto da Ohba Tsugumi e illustrato da Obata Takeshi, il primo Death Note è stato distribuito dalla filiale giapponese della Warner Bros. nel luglio 2006, e ha incassato 24 milioni di dollari. Il sequel, che è arrivato nelle sale in novembre, ha incassato 43,7 milioni di dollari, facendo totalizzare ai due film messi insieme 67,7 milioni di dollari. Pur discostandosi leggermente dalla trama del fumetto (nel primo film, a differenza del manga, lo studente ha una fidanzata, interpretata da Kashii Yu), i due Death Note sono riusciti a soddisfare gli appassionati col loro mix inconsueto di fantasy e suspense, utilizzando come principale punto di forza la guerra psicologica fra lo scaltro studente trasformatosi in assassino e il detective geniale, solitario e amante dei dolci, che è stato ingaggiato per catturarlo. Matsuyama Kenichi è diventato un attore di culto per la sua interpretazione del detective, conosciuto solo come “L”, dal volto scialbo, i capelli lunghi e lisci e il caratteristico lecca-lecca, che ha ispirato più di un costume di Halloween.
Il regista veterano Yamada Yoji, autore dei 48 episodi della serie di Tora-san, ha invece sfidato le convenzioni di genere non tanto sovvertendole, come i suoi colleghi più giovani, quanto piuttosto depurandole. In Love And Honor (Bushi no Ichibun), terzo episodio di quella che egli definisce la sua “trilogia samurai”, Yamada mette in scena la storia di un giovane samurai (Kimura Takuya) che perde la vista dopo essere stato avvelenato ed è quasi sul punto di perdere la sua devota moglie (Dan Rei) a causa della gelosia. Invece delle solite narici dilatate e dei titanici duelli fra spadaccini tipici del genere jidai geki (film in costume), Yamada opta per un uso misurato di parole e gesti e per un realismo che investe ogni cosa, dagli indicatori sociali alle mosse nei duelli alla spada. Il risultato è un dramma quanto mai efficace, proprio perché ridotto all’essenziale. Lanciato dalla presenza nel cast della superstar televisiva Kimura, Love And Honor è stato il maggior successo dell’anno per la società di produzione Shochiku, con un incasso che, dalla sua uscita in dicembre, ha superato i 4 miliardi di yen (33,6 milioni di dollari). Kimura ha avuto la nomination ai Japan Academy Awards come miglior attore, ma si è ritirato, a quanto pare perché la sua agenzia, la Johnny & Associates, si oppone al fatto che i suoi talenti competano per ottenere premi e riconoscimenti. Il film ha comunque vinto tre Awards, compreso quello per la miglior fotografia, a Naganuma Mutsuo, e quello per il miglior attore non protagonista, che è andato a Sasano Takashi per la sua interpretazione del tormentato servitore della coppia.
Come dimostra il successo di Tales From Earthsea, l’animazione rimane ancora l’unico e più importante genere commerciale giapponese che produce non solo successi una tantum, ma anche lunghe serie di successo per ragazzini, come nel caso di Doraemon, Crayon Shinchan e Pokémon. Eppure sul mercato giapponese possono prosperare anche registi di animazione più interessati a presentare una visione personale che a girare episodi di una lunga serie. È il caso di Kon Satoshi, che rifugge dai cliché del genere di animazione sin dagli esordi della sua carriera di regista, iniziata nel 1998 con Perfect Blue, un’incursione pionieristica nello psycho horror. Il suo ultimo lavoro, Paprika, distribuito in Giappone lo scorso autunno dalla Sony Pictures Entertainment, rappresenta anche la sua deviazione più audace e completa dalle convenzioni degli anime. La protagonista, da cui il film prende il titolo, è una terapista che riesce a entrare nei sogni dei suoi pazienti, e può anche darsi che possieda gli stessi attributi di altre creature graziose dei film di animazione, ma gli universi fantasmagorici che Kon crea per lei, oltre alla commistione di sogno e realtà nella storia, fanno di Paprika un risultato straordinario che fa girare la testa.
Mentre il cinema mainstream prospera, il settore indipendente del cinema giapponese è soggetto a fluttuazioni, e persino i cineasti affermati devono battagliare per assicurarsi finanziamenti e uscite nelle sale, sebbene il numero di film in uscita continui ad aumentare nonostante tutto. Molti meno, però, sono i film che rispondono ancora alla vecchia definizione giapponese di “film d’essai”, vale a dire drammi psicologici senza trama, girati con scene in piano sequenza, con malinconiche nuvole grigie sulle teste degli alienati protagonisti. Sway (Yureru) di Nishikawa Miwa esemplifica invece la direzione presa da molti registi indipendenti verso storie con un gusto di genere, ma realizzate secondo una prospettiva più seria e autoriale rispetto al solito prodotto di genere. Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2006, Sway inizia come dramma familiare e di conflitto tra fratelli, con Odagiri Joe e Kagawa Teruyuki nei panni di due fratelli con personalità e vite radicalmente diverse: Odagiri è urbano, elegante e di successo; Kagawa provinciale, represso e autodistruttivo. Poi, una donna di cui entrambi i fratelli si sono invaghiti muore cadendo da un ponte durante una gita con loro. Kagawa confessa di averla spinta, in preda a un misto di gelosia e rabbia, e Odagiri, unico testimone dell’accaduto, si sente lacerato, dato che non è del tutto sicuro di ciò che ha visto - o di ciò che dovrebbe raccontare. Il caso finisce in tribunale e il film diventa un contorto, anche se troppo elaborato, dramma processuale. Sway è diventato un successo del cinema indipendente e ha ottenuto diversi premi di fine anno, compreso quello per il miglior film al Festival di Yokohama.
Anche autori più maturi, come Sono Sion, Yazaki Hitoshi, Kurosawa Kiyoshi e Tsukamoto Shinya si sono spostati più verso il cinema mainstream, pur rimanendo fedeli alle proprie origini indipendenti. Sono, che pure ha dato una svolta commerciale e critica internazionale nel 2002 con Suicide Club (Jisatsu Circle), fa ancora uscire nei minuscoli “mini-theaters” di Tokyo (termine inglese-giapponese per le sale “d’essai”) film come Balloon Club, Afterwards (Kikyu Club, Sonogo, 2006), un dramma agrodolce su alcuni ex amici dell’università che dicono addio alla propria giovinezza - una versione de Il grande freddo per la Generazione Y nipponica.
Il suo film più recente è invece Exte (Exte: Hair Extensions), una pellicola horror distribuita a febbraio dalla major Toei. Osugi Ren interpreta il custode demente di un obitorio affetto da feticismo dei capelli, che si imbatte in uno stupendo cadavere femminile con capelli che crescono da ogni dove e inizia a raccoglierli per farne delle extensions. Quel che però lui ignora è che i capelli sono maledetti e in grado di uccidere chi li porta. Pur sfruttando questa premessa fino in fondo, comprese eruzioni di capelli in computer graphics che riempiono la stanza, Sono dà alla sua protagonista - una hair stylist interpretata da Kuriyama Chiaki - anche qualcos’altro da fare oltre che urlare, come ad esempio parlare tra sé e sé in terza persona in modo incantevole. Gli appassionati dell’horror giapponese potrebbero lamentarsi che il regista non sta prendendo il suo materiale abbastanza sul serio ma, probabilmente, i fan di Sono applaudiranno il suo tentativo di portare idee nuove in un genere che ne è notoriamente sprovvisto (e, si spera, finanziando nel contempo il suo nuovo film indipendente).
In Strawberry Shortcakes, che è solo il suo quarto film in ventisei anni, Yazaki Hitoshi porta la sua sensibilità e stile personali in un altro genere molto sfruttato, quello del dramma sentimentale. Alcuni elementi nella storia, come la ricerca frustrante dell’Uomo Perfetto da parte delle quattro protagoniste, sono classici del genere, ma il regista trasmette loro alcune peculiarità (una dorme in una bara, un’altra prega un “dio” meteorite) che vanno oltre qualunque cosa si possa trovare nell’intera filmografia di Meg Ryan. Inoltre, invece di seguire la trama punto per punto, il regista costruisce la sua storia attraverso l’accumulo di azioni e dettagli apparentemente minimi, come un mosaicista che da una scatola di tessere bizzarramente assortite riesca a mettere insieme un disegno meravigliosamente complesso ed equilibrato.
Un’altra tendenza, che non si limita al solo cinema indipendente, è la crescente presenza femminile nelle prime file dell’industria cinematografica. Le donne giapponesi sono da molto tempo figure importanti dietro la macchina da presa (figuriamoci davanti), ma solitamente in ruoli secondari, come Nogami Teruyo, che per quarant’anni è stata segretaria di edizione e direttore di produzione per Kurosawa Akira e che recentemente ha pubblicato in inglese il racconto di questo sodalizio, Waiting On The Weather.
Ma per molto tempo le donne registe di lungometraggi sono state davvero poche. Nella seconda metà del decennio, invece, ha debuttato alla regia un numero sempre più nutrito di donne; tra queste, Nakamura Mayu, laureata alla scuola di cinema della New York University, che ha girato il dramma adolescenziale The Summer Of Stickleback e l’animatrice Tominaga Mai, con il chiassoso e surreale Wool 100%. Entrambi i film sono stati presentati al Festival di Pusan dello scorso anno. L’esordio più spettacolare, però, è stato quello della fotografa e ora anche regista Ninagawa Mika, con l’anticonvenzionale dramma in costume Sakuran.
Presentato all’ultimo Festival di Berlino e distribuito dalla Asmik Ace nelle sale giapponesi il 24 febbraio scorso, lo sguardo di Ninagawa sul quartiere Yoshiwara nel periodo feudale (è il leggendario distretto a luci rosse di Edo, l’attuale Tokyo) è guidato dal suo gusto intenso per il colore e per la composizione, ma anche dalla percezione della protagonista oiran (prostituta di alto bordo) come di una giovane donna simile a molte donne di oggi: desiderose di libertà e amore, ma non sempre sicure di come conciliare le due cose. Tsuchiya Anna, una cantante pop che ha raggiunto la notorietà interpretando l’irascibile motociclista della fortunata commedia Kamikaze Girls (Shimotsuma Monogatari, 2004), la interpreta con energia e impertinenza, ma anche con una vulnerabilità che raramente era stata vista sullo schermo.
Cosa c’è in serbo per l’industria del cinema giapponese? Quest’anno ci saranno nuovi episodi di serie di successo come Harry Potter, Spider-Man e Pirati dei Caraibi, che potrebbero far pendere di nuovo l’ago della bilancia verso Hollywood, ma ora l’industria cinematografica giapponese ha troppe carte a suo favore per ricadere in una posizione di ritirata permanente. La sua squadra di divi e giovani registi di talento è nutrita ed è in crescita. Il cinema sta ricevendo finanziamenti non solo dalle grosse società di media giapponesi, ma anche da fondi di sostegno ai media e altre nuove fonti, con una maggior partecipazione straniera. E infine, la cultura pop che ispira così tanti film, compresi manga, anime, serie tv e videogiochi, è ancora fiorente, con creatori e concetti sempre nuovi. Ma la bolla produttiva di cui si preoccupa Sekiguchi è reale e i film in uscita sono talmente tanti che nemmeno i cinefili più zelanti riescono a starci dietro.
Cosa ancor più importante per i cineasti, ci sono troppi film perché i mezzi di comunicazione e il grande pubblico possano prestarvi attenzione, anche solo di sfuggita. Con i tradizionali metodi di distribuzione e di presentazione presi d’assalto dalle tecnologie digitali e dai loro utenti, l’industria cinematografica nel suo complesso dovrà sviluppare nuove strategie - oppure morire. Ci sono buone probabilità che si adatti com’è già accaduto, seppur lentamente e in modo incerto, dopo il crollo dello studio system negli anni Sessanta e Settanta. I cinefili nipponici forse guarderanno presto i loro film preferiti sullo schermo del cellulare invece che su quello di un cinema, ma molti di loro continueranno a volere che quei film abbiano un volto giapponese.