Kicks of Fury: New Muay Thai Films - Introduzione

Il programma che proponiamo è una presentazione, non un’indagine sistematica. La storia del cinema d’azione thailandese è ampia e articolata e una comprensione completa di quel che si vede oggi richiede la prospettiva e la prova della storia. È auspicabile che il nostro modesto contributo al film di arti marziali thailandese possa preludere a future iniziative maggiormente concertate.

Il programma mette in evidenza il “vero kung fu”, termine con il quale definisco l’esibizione, generalmente realistica, di stunt e combattimenti senza un eccessivo ricorso all’apporto della computer graphics. Questa forma ha rischiato l’estinzione a causa dei film basati sulla computer graphics, eppure è essenziale per il cinema stesso - l’azione dal vivo esprime una drammaticità che cattura sia l’intelletto che le emozioni del pubblico. Proprio come il volto di una Falconetti o di una Schygulla ci commuovono in un film di Dreyer o di Godard, altrettanto ci coinvolgono i colpi di piede di Bruce Lee, o il gomito di Tony Jaa che scricchiola. Sono gli umani, e non i computer, che fanno le storie.

L’idea per il nostro programma è stata ispirata da una proiezione di Chocolate al mercato cinematografico di Cannes, nel 2008. Non sapevo cosa aspettarmi, se non forse un altro tentativo di sfruttare il successo di Tony Jaa e di Ong-Bak. Quel che ho visto è stata una autentica rivelazione. Non avevo più sentito, dai film di Liu Jialiang (aka Lau Kar-leong) che guardavo negli studi della Shaw Bros. a Hong Kong a fine anni Settanta, il potere crudo e sofferto del cinema di combattimento puro e non adulterato (1). L’eroina, Jeeja Yanin, si fa strada combattendo nel film con poco più delle mere abilità fisiche (sue e dello stunt team dell’abile coreografo d’azione Panna Rittikrai), ed è colta in tutta la sua sbalorditiva realtà da una regia che mantiene abilmente l’integrità spaziale e drammatica. Non ci sono cavi, non c’è computer graphics, e, da quel che sembra, nemmeno molte imbottiture e cuscini. È un ritorno alle basi dell’azione – il corpo messo alla prova, un disprezzo per le leggi di gravità, un puro lavoro da virtuosi.

Un’intera generazione cinematografica separa Dirty Ho di Liu Jialiang da Chocolate di Prachya Pinkaew, ma entrambi condividono la capacità di riuscire a tradurre efficacemente in immagine l’energia e il potere fisico. L’eccitazione che trasmettono - l’identificazione primitiva del vostro corpo con l’azione sullo schermo - è una cosa rara nel cinema di oggi, gonfio di computer graphics.

Fin dagli inizi, uno dei punti di forza del cinema è stata la performance non mediata davanti alla macchina da presa. Qualcosa di difficoltoso per il cinema d’azione, perché un’azione credibile sullo schermo richiede attori d’azione credibili - uomini e donne capaci di esprimere un’emozione non attraverso le parole, o gli sguardi, ma tirando un pugno, o dando un calcio ben assestato, o portandoci attraverso gli alti e i bassi di una sostenuta sequenza d’azione. Bruce Lee, Liu Jialiang, Tony Jaa - e in futuro, forse Jeeja Yanin - appartengono a questa classe esclusiva. Sono attori seri, per i quali lo spazio e la narrazione sono delimitati dai propri corpi, e stabiliti dalla loro conoscenza delle arti marziali.

Generalizziamo. Al cinema, gli europei utilizzano le parole per formare una relazione, gli americani un’arma da fuoco, e gli asiatici usano il corpo, o meglio, come ha mostrato Bruce Lee, i calci e i pugni. I corpi non sono solo strumenti per raccontare la storia, sono anche la storia stessa - un combattimento, una sconfitta, una sfida, una vittoria. Cosa si diceva una volta? Il corpo è una penna ma anche un testo. I suoi movimenti e le sue iscrizioni raccontano una storia nel corso degli anni. È la storia che va al di là della trama, per esplorare in che modo l’energia viene gestita e calibrata dal dispositivo cinematografico. I concetti di allenamento, di climax e anticlimax del combattimento, di estensione della resistenza umana, sono tutti più comprensibili nel contesto del controllo dell’energia piuttosto che nel classico script in tre atti.

Questo antropocentrismo sta alla base del cinema di arti marziali realistico. È un genere che prosperò a Hong Kong dopo la guerra, e raggiunse il suo picco massimo con i film di Bruce Lee per la Golden Harvest, e di Liu Jialiang per la Shaw Bros. negli anni Settanta. Ma questo ricco filone del cinema hongkonghese è stato tagliato fuori dall’avvento dei film di kung fu fantasy, che si erano sviluppati in parallelo negli anni del dopoguerra, ed erano approdati nel mondo moderno all’inizio degli anni Ottanta con il film di Tsui Hark, pieno di effetti speciali, dal titolo Zu : Warriors From The Magic Mountain. Oggi, il cinema di Hong Kong domina perfettamente la computer graphics, grazie alla quale si sono potute realizzare superproduzioni come The Warlords di Peter Chan o Red Cliff di John Woo.

Effettivamente, il cinema di kung fu autentico non esiste più a Hong Kong. Ma continua a vivere in Thailandia. Tony Jaa e il suo rivoluzionario Ong-Bak avrebbero potuto restare un fenomeno isolato, ma il triplice talento del regista Prachya Pinkaew, del coreografo d’azione Panna Rittikrai (sicuramente il regista di arti marziali più importante oggi in Asia), e di Tony Jaa ha creato l’ambiente giusto in Thailandia - che è già la patria del cinema più emozionante di tutta l’Asia - affinché il genere potesse progredire e svilupparsi (2). Rafforzati dal successo, i film di Muay Thai stanno dando vita anche a una sorta di cantiere di talenti, che non si ferma all’icona maschile, come confermano Jeeja Yanin, star femminile del combattimento, e i bambini più piccoli le cui capacità sono già visibili in Som Tum e Power Kids.

Sebbene non si tratti, in questa sede, dell’ontologia del cinema di Muay Thai, ci sono alcune caratteristiche, somiglianze e differenze da notare. I loro stili realistici sono stati influenzati in una certa misura dal cinema di kung fu hongkonghese, come dimostrano soprattutto le produzioni PechPanna degli anni Ottanta; questi B-movies, diretti e spesso interpretati da Panna Rittikrai, sono stati concepiti come dei pretesti per intense sequenze del suo stunt team. Le storie sono quasi secondarie, e riguardano spesso signori della droga e gangster - tipi eminentemente urbani - che vanno a fare i fatti loro in ambienti rurali, e ricordano le connivenze nei villaggi cinesi del sud nei primi film di Yuen Woo-ping o di Jackie Chan. I film PechPanna, a basso budget e girati soprattutto in campagna, si dedicano alle loro acrobazie realistiche e ai loro paesaggi non urbani senza preoccuparsi del budget e dell’estetica.

Ma la loro forza propulsiva è una specie di volontà di rispondere ai film di Hong Kong, di ispirazione a far ruotare il film intorno a incredibili sequenze d’azione, realizzate in tempo e spazio reali, o all’intensa sequenza d’azione e inseguimento che è il punto chiave della storia e la premessa della trama. Il gruppo di stuntmen (che a volte indossano costumi da ninja o calzamaglie per nascondere la loro riapparizione nei panni di una nuova squadra di gorilla) è messa alla prova attraverso i rituali ben preparati di rotolarsi sulle macchine, battersi sul tetto di un camioncino in corsa, fracassare cartelloni, e fare con le moto cose che non vi sognereste mai di tentare a casa. Non si tratta solo di emulare gli stunt dei film di Hong Kong, ma anche di tentativi ambiziosi di andare oltre.

Di seguito vengono brevemente delineati alcuni ulteriori elementi interessanti, che richiedono ulteriori approfondimenti.
Il cinema hongkonghese di kung fu è generalmente orizzontale: colpi potenti, basati in gran parte sullo hung kuen del Sud. Attacco e ritirata, pugni forti, posizione da Wing Chun che richiedono piani orizzontali, hanno tutti influenzato i ritmi di fuga e inseguimento tipici dei film di kung fu hongkonghesi. Quando, saltuariamente, il kung fu diventa verticale, come nei film di Jackie Chan, l’accento viene posto sulle acrobazie (una corsa con salto mortale, la scalata di un muro) più che sul vero combattimento (3).

Invece il Muay Thai è un’arte verticale, con balzi e duelli che si muovono tra livelli diversi. La macchina da presa è spesso angolata dall’alto verso il basso, più che il contrario, in modo da sottolineare la veridicità di una caduta e l’assenza generale di reti e imbottiture di protezione. Lo stile del Muay Thai, con il suo uso di punte (gomiti e ginocchia piegati, colpi verso il basso) spesso richiede di posizionarsi in alto per essere in vantaggio, e così i salti in alto e i colpi in basso verso la testa, a gomiti piegati, rappresentano un’efficace combinazione di movimento e mossa decisiva.

In virtù delle loro radici religiose, sia il kung fu cinese che il Muay Thai sottolineano la filosofia morale e la calma interiore, come elementi essenziali per il successo. Ma le arti marziali cinesi - che vengono viste come parte di un sistema “sanitario” generale - danno più importanza ai nodi dello stress e al qi. I sistemi metodici di energia interna “soft” sono meno pertinenti allo stile “hard” del Muay Thai, dove l’enfasi è posta su tattiche aggressive.

Lo stile di combattimento conferisce agli eroi ribelli un’identità e spesso una raison d’être. Su un fronte più ampio, lo stile di combattimento si identifica con il nazionalismo. I film thailandesi hanno rapporti più complessi con i farangs (stranieri) rispetto ai film di Hong Kong, probabilmente perché la Thailandia non è mai stata colonizzata dall’Occidente, ma dipende dal turismo occidentale, i cui valori, abbastanza diversi, devono essere tollerati per ragioni economiche.

In generale, da Dangerous Encounters - 1st Kind di Tsui Hark a Fighting Beat di Piti Jaturaphat, tutti i gweilos o farangs sono cattivi. In Ong-Bak, Tony Jaa combatte contro degli stranieri minacciosi dopo che questi hanno insultato una donna thailandese nella palestra di boxe clandestina. Tom-Yum-Goong (aka The Protector) mostra un australiano e un cinese in una collusione corrotta e malvagia. Ma in film come Som Tum, gli occidentali possono essere anche delle brave persone (4). E in Chocolate l’esponente della yakuza giapponese è un “buono”. In verità, l’eroina, Zen, è nippo-thailandese, una sintesi panasiatica che impersona il nuovo millennio.

Proprio come Hong Kong si è disfatta dell’immagine chop socky [il termine colloquiale americano in uso per definire i film degli anni Sessanta e Settanta sulle arti marziali e originari di Hong Kong e Taiwan - ndt], così anche la Thailandia si sta liberando dell’immagine da kickboxing. Non solo sta per unirsi ai grandi cinema d’azione dell’Asia, ma sta anche apportando loro nuova linfa. Benvenuti nel mondo reale. Azione!


NOTE

(1) Cfr. “The Autarkic World of Liu Jialiang”, Roger Garcia, in A Study of the Hong Kong Martial Arts Film, a cura di Lau Shing-Hong, Hong Kong Urban Council, 1980

(2) Per un’analisi comparativa dell’epoca, cfr. Hunt, L., “Ong-Bak: New Thai Cinema, Hong Kong and the cult of the ‘real’” in New Cinemas: Journal of Contemporary Film Volume 3 Number 2, 2005

(3) Uno dei pochi tentativi seri di “combattimento verticale” si può vedere in alcune delle opere di King Hu, come l’edificio a piani sfalsati di Dragon Gate Inn e i combattimenti aerei nella foresta di bambù di A Touch Of Zen (La fanciulla cavaliere errante).

(4) Sebbene con caratteristiche piuttosto stravaganti. In Som Tum Nathan Jones è un lottatore dal fisico enorme, che si atteggia come una femmina leziosa e riesce a lottare solo dopo aver ingerito grandi quantità di som-tum speziato che fa ruggire il suo testosterone.

Roger Garcia