L'uomo silenzioso se ne va

 Mario Herrero O’Hara era noto, per quelli che lo conoscevano, come collaboratore del leggendario cineasta Lino Brocka; i chiacchieroni più maligni lo definivano l’amante di Brocka (non lo era, per la cronaca, e il motivo c’è). O’Hara recitò in molti dei primi film di Brocka, impersonando un cattivo molto intenso in Dipped in Gold (Tubog sa Ginto, 1971) e un figlio trascurato in Stardoom (1971) a fianco dell’attrice Lolita Rodriguez; tre anni più tardi interpretò l’amante lebbroso della Rodriguez nel fondamentale film You Were Weighed but Found Wanting (Tinimbang Ka Ngunit Kulang), del quale scrisse anche la sceneggiatura.

O’Hara è l’autore del dramma televisivo al quale si ispira quello che è probabilmente il film migliore di Brocka, Insiang (1976), primo film filippino in assoluto a partecipare alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. Il film, che parla di una ragazza dei bassifondi che viene violentata dall’amante della madre, è considerato un capolavoro di realismo, e non c’è da stupirsi: in un’intervista, O’Hara dichiarò che la vicenda eraveramente accaduta, ai suoi vicini di casa nella città di Pasay.

Si dice anche (e da questo si capisce in che condizioni è la storia del cinema filippino, in cui molti particolari sono oggetti di contenzioso o difficilmente possono essere documentati in modo definitivo) che il dramma televisivo originario si basasse su un copione radiofonico, scritto dall’attrice e sceneggiatrice Mely Tagasa. Molto probabilmente entrambe le versioni sono vere: vale a dire che O’Hara può avere preso spunto dal copione radiofonico della Tagasa, ispirandosi ai suoi vicini per i dettagli dei personaggi.

Per i film e le sceneggiature di O’Hara è sempre stato così, lui ha sempre insistito che nelle sue opere è tutto vero, non importa quanto sia fantastico. Un personaggio eccentrico (un’attrice cinematografica sfiorita che vive in una cripta al cimitero), un evento scandaloso (un personaggio storico che si innamora della sua creazione letteraria) possono avere posto nei suoi film solo se sono, in base a una qualche contorta definizione, autentici.

Era risaputo che O’Hara non utilizzava un veicolo a motore; o per meglio dire possedeva un veicolo, un furgone per la verità, ma lo guidava soltanto nel fine settimana o durante le riprese (aveva un autista che lo portava in giro e che O’Hara utilizzava anche per parsimonia in piccole parti. Una volta l’ho notato che interpretava il padre di Jose Rizal). Nei giorni feriali utilizzava jeep di servizio e autobus, e camminava per ore e ore dalla sua abitazione a Bangkal (Makati) a Divisoria (Manila), una distanza pari a circa otto chilometri; spesso queste maratone gli fornivano spunti per le sue storie, i suoi personaggi, gli eventi, parti di dialogo. Una scena particolarmente torrida, nella quale due amanti copulano su un triciclo, pare sia stata ispirata, come dichiarò, da qualcosa che aveva visto realmente succedere in Taft Avenue. Il bello era che dovevi fare attenzione quando parlavi con lui, perché era capace di metterti dentro un film, una volta o l’altra, anche senza chiederti il permesso.

O’Hara esordì alla regia con Mortal (1975), rivisitazione favolistica di un omicidio realmente accaduto, commesso da un paranoico schizofrenico. Il film doveva essere uno dei primi prodotti dalla casa di produzione Cine Manila, appena fondata, con la quale Brocka contava di produrre film. La famiglia della vittima però fece loro causa e vinse, purtroppo, per cui la Cine Manila fallì rapidamente.

La seconda pellicola di O’Hara sarebbe stato il suo primo film con la famosa cantante e attrice Nora Aunor.

La Aunor era alla ricerca di un progetto prestigioso da produrre e interpretare e aveva pensato a Brocka, che però non voleva avere “nulla a che fare con quella Diva!” e passò il progetto a O’Hara. O’Hara riesumò un vecchio copione e, con un budget di circa un milione di pesos (modesto per un dramma di quella portata e ambizione, ambientato durante la seconda guerra mondiale), realizzò Three Years Without God (Tatlong Taong Walang Diyos, 1976), che racconta i tre anni di occupazione giapponese durante i quali, come suggerisce il titolo, Dio voltò le spalle al popolo filippino. Il film è probabilmente la migliore interpretazione dell’attrice e produttrice, presumibilmente il miglior film del regista e probabilmente, presumibilmente, a mio personalissimo parere, il miglior film filippino in assoluto.

ATTO PRIMO Mario O’Hara nacque a Zamboanga City il 20 aprile 1946, figlio di un avvocato mezzo irlandese-americano e mezzo filippino di nome Jaime O’Hara di Antipolo, Rizal, e da Basilisa Herrero di Ozamis Oriental. Il padre di Jaime O’Hara era un insegnante Thomasita1, uno dei primi inviati nelle Filippine, e in virtù di questo semplice fatto gli O’Hara, Mario compreso, ebbero la possibilità di emigrare negli Stati Uniti (Mario rifiutò la proposta).

La sua era una famiglia numerosa (otto fratelli e tre sorelle) e, a detta di O’Hara, felice, con un’infanzia nutrita del potere evocativo di una radio notturna.

Poco dopo la sua nascita, la famiglia O’Hara si trasferì a Pasay City, in un quartiere dalla struttura insolita: ricchi palazzi da entrambi i lati della strada, e una baraccopoli subito dietro. O’Hara dicharava che molte delle sue sceneggiature derivavano da quella baraccopoli dietro il cortile. Un amico di suo fratello aveva un cinema, e così andavano a vedere gratis film come La leggenda di Robin Hood di Michael Curtiz e i serial di Flash Gordon.

O’Hara aveva pianificato una carriera pragmatica, con una laurea in ingegneria chimica presso la Adamson University, ma il richiamo di quella voce della sua infanzia si dimostrò troppo potente. Al secondo anno di università fece un provino per una parte in un programma radiofonico della Procter & Gamble alla Manila Broadcasting Corporation. Al terzo anno abbandonò gli studi perché non riusciva a conciliare lo studio con il lavoro alla radio.

Nel 1968 O’Hara incontrò Lino Brocka, che lo utilizzò come attore sul grande schermo e a teatro, nelle produzioni per la PETA (the Philippine Experimental Theater Association, Associazione Filippina per il Teatro Sperimentale). O’Hara finì per dirigere il suo primo film per avere criticato lo stile di regia cinematografica di Brocka. “Visto che te ne intendi così tanto, perché non lo dirigi tu?”, gli chiese Brocka, che voleva realizzare un adattamento del romanzo seriale di Edgardo Reyes dal titolo In the Claws of Light (Sa Mga Kuko ng Liwanag), prodotto da Mike de Leon; così passò a O’Hara il film Mortal, che avrebbe dovuto dirigere lui.

Dopo le vette raggiunte da Tatlong Taong Walang Diyos O’Hara toccò il suo punto più basso con The Captive Virgins (Mga Bilanggong Birhen, 1977), l’ennesimo film epico in costume. O’Hara venne licenziato dopo avere girato il novantacinque per cento delle riprese principali (“Il produttore ed io non vedevamo le cose allo stesso modo”, disse) e il film venne completato da un altro regista.

È un evento che si ripeterà altre volte: c’è un film nel quale il produttore inizia a interferire e O’Hara o abbandona il progetto, o si lascia licenziare. Sul set veniva descritto come un lavoratore diligente e determinato, ma nel momento in cui qualcuno interferiva con il suo controllo del film era capace di mollare tutto e andarsene.

Si potrebbe provare a spiegare questa tendenza attraverso l’atteggiamento di O’Hara nei confronti del cinema, che una volta aveva riassunto così: “Prima di tutto attore, poi sceneggiatore, alla fine anche regista”.

Questa esplicita mancanza di impegno nei confronti del cinema (si pensi a Orson Welles che spese quattro anni della sua vita per finire Otello) da un certo punto di vista può essere considerata un difetto enorme, dato che O’Hara era più un opportunista che uno che si è fatto da solo, ed è per questo che portò a termine molti meno film di quelli che avrebbe potuto fare.

D’altra parte, questo ha permesso al suo lavoro di avere delle caratteristiche di indipendenza e di coraggio nei confronti delle possibili reazioni adirate di altri registi (e del pubblico) rispetto ai suoi film più eccentrici. In Mortal, ad esempio, il film procede in modo frammentario e allucinato e solo in un secondo momento diventa più coerente, proprio come la mente schizofrenica del protagonista che si fa più chiara man mano che riacquisisce il senno.

Mga Bilanggong Birhen contribuì a stabilire un modello: quando O’Hara non poteva dirigere un film, dirigeva per la televisione, quando non poteva dirigere nulla, recitava, e quando non recitava, scriveva. Si esibì a teatro, alla radio, alla televisione e al cinema; scrisse sceneggiature per Brocka e diresse la soap opera Flordeluna per un anno.

O’Hara ha scritto The Palace of Valentin (Ang Palayso ni Valentin), una zarzuela (forma di teatro musicale filippino) che racconta la storia della pianista decrepita di un teatro decrepito e del suo amore imperituro per il bel cantante del teatro. Ang Palayso ni Valentin costituiva l’omaggio di O’Hara alle arti teatrali, e vinse il gran premio per la drammaturgia alla Centennial Literary Competition nel 1998. Nel 2002 il regista rielaborò il frutto più celebre della sua collaborazione con Brocka (Insiang) trasformandolo in un dramma teatrale, con l’azione trasferita a Pasay City, dove avrebbe dovuto essere ambientata originariamente (il film di Brocka era ambientato a Tondo) e l’aggiunta di un narratore divertente e moderno (un po’ come l’Uomo Qualunque di Un uomo per tutte le stagioni di Robert Bolt) per commentare e dare più contesto al dramma.
ATTO SECONDO Negli anni Ottanta del secolo scorso O’Hara fece il grande passo sullo schermo cinematografico. Il suo Castle of Sand (Kastilyong Buhangin, 1980) fu un trampolino di lancio sia per il talento canoro di Nora Aunor che per le prodezze fisiche dell’attore ed ex cascatore Lito Lapid, Noel Vera come una curiosa ma vivace unione tra È nata una stella di George Cukor e Prison on Fire di Ringo Lam. Con Why Is the Sky Blue? (Bakit Bughaw ang Langit?, 1981), la storia di una ragazza timida (sempre la Aunor) che si innamora di un ragazzo mentalmente limitato, O’Hara sfidava direttamente il suo mentore e amico Brocka nel suo stesso territorio realistico-sociale. C’è poi quella che potrebbe essere definita probabilmente come la trilogia noir di O’Hara, ambientata a Manila: Condemned (1984), la storia di un fratello e una sorella (ancora la Aunor) in fuga da una banda di falsari e contrabbandieri di dollari per le strade di Malate, Flowers of the City Jail (Bulaklak sa City Jail, 1984), che racconta le vicende di una donna incinta (sempre la Aunor) detenuta nell’infernale carcere cittadino, e The New King (Bagong Hari, 1986), la storia di un uomo assoldato per assassinare inconsapevolmente il proprio padre. I tre film presentano un ritratto cupo della città di Manila (e l’ultimo film fu vietato ai minori dalla censura, per l’estrema violenza) e si potrebbero forse considerare il punto più alto del noir filippino.

PIGMALIONE Se una buona parte di film di O’Hara avevano Nora Aunor come protagonista, un motivo c’era: O’Hara fu uno dei primi registi a riconoscere il suo valore come attrice, quando ancora lei era considerata una “semplice” stella del pop multimediale. Entrambi erano timidi e riservati ma, quando dovevano farlo (per parlare in pubblico, o davanti a una macchina da presa), potevano accendere la lampada da 1000 watt del loro carisma.

Questa timidezza apparente che nascondeva un talento considerevole era forse la base del loro rapporto, un’assonanza spirituale che si riscontra raramente in altri rapporti di collaborazione tra regista e attrice nel cinema filippino. La Aunor si potrebbe anche definire un alter ego del regista, espressione sullo schermo della sua forza interiore e della sua vulnerabilità nascosta, da mettere intensamente alla prova con la narrazione tortuosa dei suoi film. Quale che sia il motivo, i titoli (Tatlong Taong Walang Diyos e Bakit Bughaw ang Langit, tra molti altri) parlano da soli: le opere realizzate da O’Hara con la Aunor rappresentano alcune delle migliori realizzazioni che i due artisti, o lo stesso cinema filippino, abbiano mai prodotto.

I FILM PITO-PITO Nel 1998 la responsabile della Regal Films, “Mother” Lily Monteverde, con la collaborazione del regista e produttore Joey Gosiengfiao, fondò la Good Harvest, una divisione della Regal, destinata a sfornare film pito-pito, un termine (letteralmente traducibile come “settesette”) che si riferisce alla velocità con la quale vengono realizzati i film: sette giorni per le riprese, sette giorni per la postproduzione. La premessa di base suona più o meno così: Mother Lily dà al regista un piccolo capitale per l’avviamento (due milioni e mezzo di pesos, circa 62.500 dollari USA) e un piano di lavoro esageratamente stretto (quattordici giorni dall’inizio delle riprese al film finito) con l’unica clausola che i film debbano avere un richiamo commerciale (un po’ di violenza, dell’erotismo di buona qualità); per il resto i registi hanno carta bianca e possono fare quello che vogliono.

Il sistema dei pito-pito ha aiutato i registi esordienti a produrre il loro primo film, e i veterani a realizzare il progetto dei loro sogni. O’Hara realizzò non uno, bensì due film in quattordici giorni. Woman on a Tin Roof (Babae sa Bubungang Lata, 1998) è l’adattamento di O’Hara di un dramma da camera in un atto con due soli personaggi, ampliato fino a farlo diventare un omaggio all’industria cinematografica filippina.

Sisa era l’omaggio di O’Hara alla figura storica ed eroe filippino Jose Rizal, basato sull’assunto che Rizal non abbia inventato di sana pianta la sua più celebre creazione letteraria ma la conoscesse sul serio, sotto forma di una donna viva, che respirava e palpitava (si ricordi l’asserzione, più volte ripetuta da O’Hara, che i personaggi meglio delineati sono presi dalla vita reale), e che questa donna fosse l’amore della sua vita (come in Shakespeare in Love, ma solo con una minima parte del suo budget e un approccio molto più strano – leggasi follemente immaginativo).

ULTIMO ATTO Nel 2000 O’Hara diresse il suo ultimo film pito-pito: Demons (Pangarap ng Puso), la storia di due bambini cresciuti vicino alle incantate foreste pluviali di Negros, che si innamorano e vengono sospinti nella tumultuosa corrente della storia. La loro crescita è rappresentata dall’evoluzione del modo in cui percepiscono le creature magiche che danzano intorno a loro – e che per il bambino sono una metafora del mondo vasto e sconosciuto, per l’adolescente una metafora della sessualità emergente, per il giovane diventato adulto una metafora degli impulsi che governano allo stesso modo terroristi e fascisti militari, bloccati in un ciclo infinito di violenza e vendetta.

Ma c’è di più, molto di più: la madre della ragazza (Hilda Koronel) recita “The Gift” di Florentino Collantes, che traduco qui in parte (molto sommariamente).

Il nostro amore è come il cielo e la terra come l’unione di mare e montagna.

Troppo vicini per vedersi chiaramente bevendo lacrime amare.

Ricordo il mio amore di una vita come giaceva sofferente e come io dissi che, se mai fosse morto, lo avrei presto seguito.
Crescendo, la figlia erediterà questo stesso amore per la poesia, ma in tempi così bui è attratta da elementi più cupi e inquietanti, come gli arditi versi di Amado Hernandez sui prigionieri politici (ancora, tradotto qui in modo molto approssimativo).

Brillante come un lampo l’occhio del guardiano su questo cancello chiuso e inaccessibile; il condannato nella cella a fianco urla un animale intrappolato in una caverna.

Ogni giorno passa come una catena trascinata sul pavimento da piedi sanguinanti ogni notte è un sudario luttuoso drappeggiato sulla mia sepoltura.

A volte passano furtivi i piedi di qualcuno, il tintinnio delle catene ne segna il passaggio; il sole giallognolo occhieggia e rivela innumerevoli spettri che sgorgano dal buio.

A volte la pace della notte è infranta da un allarme – una fuga! – e spari; a volte rintocca la campana della vecchia chiesa e nel cortile qualcuno muore...

La ragazza cresce, affronta i suoi demoni e li sconfigge (ma non del tutto, come vedremo nel film); si lascia coinvolgere dalla violenta scena politica della regione, sebbene non profondamente come il suo fidanzatino d’infanzia che ha una taglia di migliaia di pesos sulla testa. I suoi discorsi sono mirabilmente progressisti, ma – per quella che considero una reazione curiosa alla ribellione del giovane – la poesia della ragazza è più personale che radicale (questi versi sono stati scritti non da un famoso poeta filippino ma dalla nipote di O’Hara – anche qui, una traduzione approssimativa e probabilmente incompetente).

Alla tomba dell’infanzia in questo tratto di terra fetida e macchiata di rosso la morte si compie.

L’ultimo respiro è stato profondo e imbevuto di un senso perché il cielo non piange un uomo e lesina le lacrime a un giardino riservato per Santi che stanno, immobili, in piedi.

Orfani che chiedono l’elemosina vicino alle tombe dei cimiteri.

I morti però capiscono.

Sotto la loro sepoltura e la loro putrefazione, c’è il lutto e l’accattonaggio.

È incredibile che sia scritto da una ragazza, e non sono neppure i suoi versi migliori. Quelli sono recitati verso la fine del film, e sono strazianti: la storia di due vite, racchiuse in una manciata di parole.

Una volta, dopo la proiezione di questo film, mi è stato chiesto (dalla defunta Nika Bohinc, se ricordo bene!): perché i bambini avrebbero dovuto avere paura degli spiriti delle foreste se tutto quello che hanno conosciuto è innocenza e gioia? Allora avevo una risposta, che mi sembrava adatta, ma dopo averci pensato su credo che la risposta più giusta da dare sarebbe stata questa: ciò che i bambini conoscono è così poco rispetto a ciò che possono veder accadere, e anche sapendo poco (o meglio, proprio per questo: com’era la definizione di Socrate di un uomo davvero saggio?) sono in grado di avvertire il pericolo e l’oscurità oltre il loro orizzonte limitato e sicuro. I bambini possono sentire e vedere, e in questo modo conoscere (anche se non sono certi di tutti i particolari); così attrezzati, e non privi di immaginazione, sono in grado di temere. Quando poi crescono e diventano adulti imperfetti (una attivista e poetessa in erba, un temibile killer ribelle), la loro conoscenza aumenta e il loro orizzonte si amplia, ma il buio non è mai completamente dissolto, e la paura non sparisce mai del tutto.

Nel 2003 O’Hara realizzò Woman of the Breakwater (Babae sa Breakwater), sui senzatetto che vivono lungo gli argini di Manila – ancora una volta O’Hara si avventura nel territorio di Brocka (in particolare Maynila sa Mga Kuko ng Liwanag) soltanto con una forte vena di realismo magico che lo percorre, mentre il cantastorie Yoyoy Villiame commenta con le sue canzoni l’azione che si svolge sullo schermo (di nuovo l’Uomo Qualunque di Robert Bolt, stavolta in musica). The Trial of Andres Bonifacio (Ang Paglilitis ni Andres Bonifacio, 2010) utilizza i verbali effettivi del processo del Supremo Andres Bonifacio (come fece Carl Theodor Dreyer per La Passione di Giovanna d’Arco) come punto di partenza per rendere finalmente giustizia, con un budget ridotto e il suo realismo magico, a questo trascurato contemporaneo di Jose Rizal.

O’Hara ritrovò la sua musa abituale Nora Aunor per quella che sarebbe poi diventata la sua ultima grande opera. In the Name of the Mother (Sa Ngalan ng Ina, 2011), una miniserie che racconta la recente politica filippina in formato teleserye, è incentrata sul brillante assunto che gran parte degli eccessi melodrammatici della soap opera filippina contemporanea (il dramma, i tradimenti, il sesso e la violenza) riflettano gli eccessi melodrammatici della politica filippina contemporanea (il dramma, i tradimenti, il sesso, la violenza). In quel momento forse la salute di O’Hara non era più quella di una volta, così condivise questo sforzo intenso (25 episodi di un’ora l’uno) con il co-regista Jon Red, cui si devono anche tutte le sequenze d’azione del serial.

Tutta questa passione, tutte le notti insonni e lo sforzo enorme per la salute di O’Hara (che a un certo punto stava girando di seguito Babae sa Bubungang Lata e Sisa) costarono care. Il 19 giugno 2012 i social media riportavano la notizia che O’Hara era stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso con sintomi di leucemia acuta. La famiglia, rispettosa della sua indole schiva, non rivelò il nome dell’ospedale (che in seguito si apprese essere il San Juan de Dios). Il fratello Jerry O’Hara riferì che stava rispondendo bene alla chemioterapia, ma l’ottimismo era prematuro: la mattina del 26 giugno si sparse la notizia che O’Hara si era arreso a un arresto cardiaco, l’uomo silenzioso avrebbe taciuto per sempre.

CHIAMATA ALLA RIBALTA L’importanza di O’Hara per il cinema filippino è difficile da valutare. Diversamente dai suoi più noti contemporanei, Lino Brocka e Ishmael Bernal, O’Hara non amava discutere le idee che stavano alla base dei suoi film, preferiva rimanere in secondo piano, facendo da coppiere ai príncipi più vistosi del settore.

C’è poi un’ulteriore difficoltà: se le opere dei cineasti filippini della generazione più vecchia non sono di facile reperibilità (Tubog sa Ginto di Brocka, ad esempio, esiste solo come video pirata) e quelli di O’Hara sono ancora più difficili da trovare degli altri, allora tentare di vedere i suoi film può essere paragonato, in termini di difficoltà e di spesa, alla ricerca del Sacro Graal (e per alcuni titoli non è un’esagerazione). Si può dire che almeno per quattro o cinque dei venticinque lungometraggi che ha diretto non esistono copie dei film, e che solo cinque sono disponibili in DVD – non le copie migliori, e senza sottotitoli (salvo indicato diversamente). Il suo capolavoro Tatlong Taong Walang Diyos si trova su youTube con i sottotitoli, per quanto io mi rifiuti di collegarmi a quella presa in giro – è come guardare Las Meninas di Velasquez dal fondo di una fossa settica (e non sono neanche un grande ammiratore della traduzione). Quando si cerca di parlare dei suoi film non si può fare a meno di pensare ai sette uomini ciechi che vogliono descrivere un elefante: è impossibile rendere giustizia a una creatura tanto meravigliosa.

TUTTAVI A… O’Hara fu un collaboratore fondamentale di Brocka, e si potrebbe dire che ha introdotto nei film del maestro filippino una nota di ambiguità morale che non si trova nelle altre opere di Brocka. Alla fine di Insiang, per esempio, era difficile capire chi fosse la vittima e chi il carnefice; in Tinimbang Ka Ngunit Kulang il personaggio interpretato da O’Hara (Berto il Lebbroso) inizialmente viene visto come un possibile stupratore. O’Hara ha fatto proprio il modo di raccontare realistico-sociale di Brocka (Bakit Bughaw ang Langit?) e vi ha introdotto variazioni barocche, quasi favolistiche (Mortal, The Fatima Buen Story, 1994); in seguito, nel corso della sua carriera, è riuscito a creare un modo di fare cinema inimitabilmente suo: immaginativo sia nella forma che nel contenuto, eppure pieno di riflessioni di carattere politico, sociologico e storico (Pangarap ng Puso, Sisa).

Probabilmente O’Hara era più fluente di Brocka in almeno uno o due forme del linguaggio cinematografico.

La rivolta carceraria che segna il culmine di Kastilyong Buhangin, le varie ed elaborate sequenze di lotta in Bagong Hari, confermano che è uno dei migliori registi d’azione filippini; il suo utilizzo di inquadrature visibilmente angolate e la mise-en-scène chiaramente allestita ne fanno l’erede visuale di Gerardo de Leon (e prima di de Leon, dei classici: Ford, Ejzenštejn, Griffith).

Probabilmente la formazione radiofonica iniziale di O’Hara gli permise di distinguersi dagli altri cineasti filippini degli anni Settanta, che provenivano soprattutto dal teatro filippino, e credo che questa formazione abbia contribuito a liberarlo dalla tirannia del proscenio, permettendogli di dare la sensazione di guardare un film invece di una registrazione filmata di uno spettacolo teatrale. Il commento musicale (un punto debole di Brocka, secondo O’Hara), le transizioni sonore, il dialogo sovrapposto collegavano le sue immagini, amplificando con sottigliezza il loro potere emotivo cumulativo. Inoltre, c’era una fluidità nel suo montaggio (come in Pangarap ng Puso, in cui un veloce montaggio di fotografie funziona come lo sfarfallio di immagini della memoria), un alternarsi continuo tra realtà e fantasia e fantasia e realtà (la schizofrenia del protagonista in Mortal, i bambini che vedono creature soprannaturali nel contesto della vita di provincia in Pangarap ng Puso) che suggerisce non tanto un orientamento spaziale quanto uditivo, o, se non altro, meno limitato dalle unità di un luogo preciso, e in grado di saltare con noncuranza tra spazio, tempo ed emozioni, come gli era stato insegnato dalle transizioni ugualmente intrepide (dal presente al passato, dalla realtà alla fantasia, dalla commedia al dramma) degli spettacoli radiofonici della sua infanzia.

Questo non vuol dire però che O’Hara avesse voltato completamente le spalle alla teatralità. In Bubungang Lata presentava ampi brani del dramma di Joaquin come un dramma, con due personaggi che si muovono all’interno di un set molto piccolo, e con la macchina da presa che semplicemente resta lì ad assorbire le loro performance; la semplicità di questo approccio sottolineava la semplicità delle loro vite e delle loro aspirazioni (in contrasto con i personaggi più favolistici del film, che sono ripresi con un’ampia gamma di inquadrature e illuminazioni). In Ang Paglilitis ni Andres Bonifacio, il suo primo lungometraggio digitale, O’Hara evita di sfruttare le virtù più ovvie del video digitale (la mobilità delle attrezzature, la facilità nella creazione di inquadrature a mano sempre in movimento) e blocca invece la macchina da presa guardando gli attori senza battere ciglio, con un occhio spassionato (l’unico vantaggio del digitale che utilizza è l’altra virtù del mezzo, la possibilità di registrare lunghe riprese). L’inquadratura fissa e l’utilizzo di una vivace tavolozza di colori enfatizzano una stilizzazione che non è inopportuna in un moro-moro (altra forma teatrale specificatamente filippina), e funge da tacito commento della politica che si cela dietro il processo (nel moromoro l’esito è definito molto prima che inizi il dramma).

IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE Il virtuosismo cinematografico di O’Hara avrebbe un significato limitato senza un punto di vista filosofico e morale, e questo è forse l’aspetto più difficile di tutti da individuare. La sua reticenza personale, la sua riluttanza a chiarire e spiegare i suoi pensieri e le sue intenzioni nella vita reale si estende ai suoi film, e nella sua opera migliore è praticamente impossibile (chi è la vittima? chi è il carnefice?). I film di O’Hara, come quelli del suo amico e mentore Brocka, raffigurano estremizzazioni dell’amore, della lussuria, dell’odio, del disprezzo, del sadismo e della tenerezza. Diversamente da Brocka, si avverte una distanza tra O’Hara e i suoi soggetti. L’immediatezza, l’urgenza, la rabbia al calor bianco che pulsa nei film di Brocka manca in quelli di O’Hara, ma allo stesso tempo ci sono in O’Hara delle tonalità emotive che mancano in Brocka (il cinismo, come nel finale di Condemned; un senso dell’umorismo sardonico, come nella testa mozzata di Bagong Hari).

Il titolo del film fondamentale di Brocka riassume il suo atteggiamento verso i personaggi: li giudica, costantemente e meticolosamente, e può essere una giustizia implacabile, con standard quasi impossibili.

O’Hara non lo fa. Dove dovrebbe esserci il suo atteggiamento nei confronti dei personaggi si spalanca una vasta caverna di silenzio. Non sembra odiare i suoi cattivi (lo stupratore giapponese di Tatlong Taong Walang Diyos), né amare particolarmente i suoi eroi (lo sfortunato stuntman di Babae sa Bubungang Lata).

La sua macchina da presa ha quella caratteristica di imperturbabilità che si ritrova nei registi filippini più contemplativi (Mike de Leon e Ishmael Bernal, per citare due suoi contemporanei; Lav Diaz per pensare a un esempio più recente). A volte lo si trova impegnato in un’inquadratura dall’alto verso il basso, il punto di vista di una divinità, o di un essere superiore, o di uno scienziato, che guarda i suoi fedeli, o i suoi sottoposti, o le sue cavie.

Ma se si guarda e si ascolta più da vicino – sempre l’elemento uditivo – e si fa molta attenzione alle sue inquadrature, alla durata delle scene, alle scelte fatte nell’allestimento e nelle letture del copione, e persino alle parole effettivamente utilizzate nel dialogo, si ritrova il sussurro, l’accenno, il suggerimento di un atteggiamento. Prendiamo il cieco che accompagna il fratello paralitico dietro la processione religiosa in Tatlong Taong Walang Diyos, o Babette che dice addio in Bakit Bughaw ang Langit: la prima sequenza è interamente muta (si rimane colpiti dalle dimensioni del gigantesco galleggiante che ondeggia dietro i due fratelli), la seconda ha solo parole (non sono tanto le parole – perlopiù frammenti di consigli pratici – quanto il modo delicato in cui la Aunor le esprime che rivelano il vero stato d’animo di Babette). O’Hara mantiene bassa, bassissima la fiammella che indica la temperatura emotiva dei suoi film... fino a quando non capiamo di cosa parla realmente la scena, e il suo pieno significato ci esplode in faccia. Se Brocka era un rivoluzionario totale che alzava il pugno chiedendo che le cose cambiassero, O’Hara era un sovversivo, che ti contrabbandava le sue idee sotto il naso per poi fartele esplodere in testa, dove non è possibile difendersi.

La distanza di O’Hara non è una posa. Il regista è anche troppo perspicace rispetto alla perversità della natura umana per pensare che ci stiamo solo fraintendendo a vicenda, o infliggendo istintivamente gli uni sugli altri il nostro dolore più intimo.

Capisce che c’è un vivo piacere nell’imporre il dolore (di nuovo, lo stupratore giapponese di Tatlong Taong Walang Diyos), e che ci sono persone tra di noi che bramano quel piacere in dosi costanti (il poliziotto in Babae sa Breakwater, Rex in Bagong Hari).

Allo stesso tempo, si sente un sussurro provenire dal silenzio della caverna: quando i film di O’Hara lavorano a pieno regime ci sentiamo rizzare i peli sulle braccia e dietro il collo mentre avvertiamo – nel modo in cui un sensitivo avverte una presenza sovrannaturale – che O’Hara ha a cuore i suoi personaggi, si preoccupa profondamente per loro, ma è troppo artista per lasciar parlare troppo forte questa preoccupazione.

Comprendere questa spinta contraddittoria di forze tra l’impassibilità e l’empatia in O’Hara, questa doppia visione se si vuole, è forse la chiave di lettura per comprendere il suo cinema.

Cosa dire, infine, di O’Hara come regista? Francamente, potrei scriverne per anni e anni ma non basterebbe.

Poche parole però potrebbero essere d’aiuto: O’Hara rappresenta, credo, lo spirito ribelle del cinema filippino, il viandante-osservatore silenzioso (soprattutto per quanto riguarda l’area Makati-Malate-Quiapo-Divisoria), la sua coscienza sussurrata ma insistente. È il suo poeta riluttante, il suo sommesso narratore di favole, il suo "artista termite" (per prendere a prestito una frase di Manny Farber) che fatica nel fango e nella sporcizia per costruire qualcosa che non intende essere bello, forse non pretende nemmeno di diventare qualcosa che si avvicina al bello, ma che in qualche modo, quasi per caso se si vuole (benché questa qualità casuale possa essere un segno distintivo della sua autenticità), raggiunge una bellezza ribelle e riluttante.

O’Hara è (sempre a mio parere personale) il migliore regista filippino, e la sua morte costituisce per il nostro cinema un danno irreparabile e irrecuperabile – non solo per il riconoscimento di tutta una vita che gli si deve, ma per le opere che avrebbe potuto darci, se soltanto fosse vissuto almeno un altro anno (una volta ho passato un’intera serata ad ascoltarlo parlare delle sceneggiature che serbava da parte, una più fantastica dell’altra). Il mondo è un posto più silenzioso ora che quest’uomo se n’è andato, ma non necessariamente migliore. Abbiamo ragione a piangerne la perdita.

Pubblicato originariamente in Businessworld del 28 giugno 2012 www.bworldonline.com/content.php?section=Arts&Leisure&ti tle=The-Quiet-Man-passes&id=54269 Si ringraziano: Critic After Dark: a Review of Philippine Cinema www.bigozine2.com/theshop/books/NVcritic.html criticafterdark.blogspot.com/ 1 I Thomasiti erano un gruppo di cinquecento insegnanti americani mandati nelle Filippine dal governo statunitense nell’agosto 1901 a bordo della nave da sbarco Thomas. Il termine poi è stato utilizzato per definire tutti gli insegnanti americani giunti nelle Filippine nei primi anni del periodo coloniale americano. [NdT]

Noel Vera