La bolla che si rifiuta di scoppiare: il cinema coreano nel 2013

Un coreano recentemente citato sul New York Times, parlando dei musical a teatro ha affermato “Qui in Corea abbiamo le bolle, come in qualunque altro posto, solo che non scoppiano. Crescono e basta”. Una simile dichiarazione potrebbe sembrare l’anticipazione di un crollo improvviso. Tuttavia, almeno fino ad ora, l’industria del cinema sudcoreano appare come una di quelle bolle che sfidano le leggi della fisica.

Nel 2013 il cinema coreano è riuscito ancora una volta a librarsi verso nuove vette, superando agevolmente i consuntivi del 2012, che a loro volta avevano già infranto tutti i record. I film nazionali da soli hanno venduto nel 2013 ben 127,3 milioni di biglietti, vale a dire il 59,7% del totale annuale, con un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente e di oltre il doppio rispetto al 2008. Inoltre, nove dei dieci film campioni di incassi dell’anno erano coreani. A sorpresa, un rapporto del Korean Film Council ha stimato che, senza contare le pellicole indipendenti, un film commerciale coreano nel 2013 ha in media ottenuto profitti pari al 15,2%.

Statistiche come queste suggeriscono che il cinema coreano sia nel pieno del suo periodo di maggior successo di sempre, dalla sua nascita in poi, e in un certo senso questo è vero. Ma uno sguardo più attento all’industria cinematografica locale permette una valutazione meno univoca. Alcuni critici sostengono che i larghi conglomerati, che dominano il settore, limitano la libertà creativa in favore dei profitti e che lo spirito di sperimentazione che caratterizzava l’industria cinematografica coreana tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del Duemila è stato sostituito da un approccio sempre più aziendale. Di sicuro, i critici che vedono tutti o gran parte dei film coreani che escono in sala ogni anno possono percepire in questi film un generale spirito conformistico. Il cinema mainstream aderisce a formule stereotipate molto più di quanto facesse un tempo, offrendo così ben poche sorprese rispetto al passato. Nonostante ciò i cineasti hanno conservato la capacità di intrattenimento e così, di tanto in tanto, qualcosa di interessante salta fuori.

Nei dodici mesi che sono trascorsi dall’ultima edizione del Far East Film Festival, in Corea ci sono stati un bel po’ di grossi successi di botteghino e, cosa alquanto eccezionale, i tre film campioni d’incassi di quest’ultimo anno avevano come protagonista lo stesso attore. Song Kang-ho è considerato da diverso tempo uno degli attori di punta del cinema coreano, ma è certo che nemmeno lui ha mai sperimentato un anno come il 2013: con tre film da protagonista è riuscito a far vendere addirittura 29,9 milioni di biglietti.

Dei tre film, quello che ha avuto i risultati più importanti è stato The Attorney, uscito in sala il 18 dicembre scorso, con 11,4 milioni di biglietti venduti. Ambientato a Busan nei primi anni Ottanta, vede Song nei panni di un giovane avvocato che fa un’ottima carriera occupandosi di consulenza fiscale dopo essere stato ostracizzato dall’establishment legale perché privo di titolo accademico. Viene coinvolto nel difficile caso di un gruppo di studenti arrestati e torturati dal governo militare, e di fronte alla prospettiva di perdere la sua brillante carriera, sente nascere dentro di sé un forte idealismo e una crescente determinazione.

Anche se non il film non lo dichiarava esplicitamente, tutti gli spettatori sapevano che The Attorney raccontava la storia vera di Roh Moo-hyun prima della sua elezione a presidente della Corea del Sud nel 2002. Roh, che durante i cinque anni del suo mandato presidenziale ebbe non pochi problemi a causa dei suoi sforzi per introdurre una politica progressista nella società coreana, si suicidò nel maggio 2009, ma il suo ricordo continua a suscitare emozioni molto forti su entrambi i fronti della politica coreana. Alla sua uscita, The Attorney ha suscitato molto scalpore e, anche se in parte questo è dovuto al fatto che la storia si adatta all’attuale clima politico coreano, la forza del film è innegabile. Il regista esordiente Yang Woo-seok e il co-sceneggiatore Yoon Hyun-ho hanno creato una trama decisamente coinvolgente e solida che è arricchita da alcune scene in tribunale che toccano nel profondo. Da parte sua, Song Kang-ho esprime il crescente senso di indignazione e la determinazione del suo personaggio con grande forza e controllo. Per molti spettatori coreani scoraggiati dall’attuale situazione sociale e politica del proprio paese, The Attorney è stato una fonte dolceamara di incoraggiamento.

Solo tre mesi prima Song ha avuto un grosso successo in un ruolo completamente diverso. The Face Reader è ambientato nel XV secolo e racconta la storia vera della prima grande crisi di successione della dinastia Joseon, ma mentre il Re e i maggiori esponenti del potere sono personaggi realmente esistiti, il protagonista interpretato da Song è d’invenzione: un aristocratico decaduto che dimostra un talento particolare nella lettura dei volti. Studiando i tratti somatici di una persona, egli è in grado di indovinarne i lati nascosti del carattere, le inclinazioni e, in alcuni casi, anche il destino. Questo talento finisce per coinvolgerlo nelle macchinazioni politiche di corte. The Face Reader segna il primo grosso successo del regista Han Jae-rim, i cui due film precedenti, Rules of Dating (2005) e The Show Must Go On (2007) hanno comunque un bel seguito di fan. Il film viene spesso paragonato a un altro dramma storico di grande successo, Masquerade (2012), con cui condivide più o meno gli stessi punti di forza, vale a dire la storia mirata e un cast di tutto rispetto, ma con la differenza che nella seconda parte si snoda in maniera più cupa. Il film, arrivato nelle sale a settembre, durante la lunga festività del Chuseok (Festa del Raccolto), ha innescato un passaparola positivo portando al cinema ben 9,1 milioni di spettatori.

L’ultimo film della tripletta vincente di Song Kang-ho al botteghino del 2013 è un caso del tutto particolare: infatti, non esiste un film simile in tutta la storia del cinema coreano. Snowpiercer di Bong Joon-ho è una pellicola costata 40 milioni di dollari, tratta da una graphic novel francese e che vanta un cast internazionale con nomi del calibro di Chris Evans, John Hurt, Tilda Swinton, Ed Harris, Octavia Spencer, Jamie Bell... e Song Kang-ho (Ko Ah-sung, coprotagonista con Song in The Host, è l’unico altro attore coreano del film). Ambientato in un’ipotetica era glaciale del futuro, il film parla di una ribellione che scoppia su un treno che accoglie gli ultimi esseri umani esistenti. Sebbene sia stato girato nella Repubblica Ceca con dialoghi per la maggior parte in inglese, non è un film hollywoodiano e nemmeno una coproduzione internazionale. Prodotto dalla Moho Films di Park Chanwook e interamente finanziato da uno dei più grossi studi coreani, la CJ E&M, il film rappresenta lo sforzo più ambizioso dell’industria cinematografica coreana per raggiungere un pubblico mondiale.

Anche se a luglio, quando è uscito, l’accoglienza dei critici coreani è stata controversa, il film è diventato un argomento di conversazione molto importante tra il pubblico e ha venduto 9,3 milioni di biglietti. A livello internazionale i critici sono stati molto più benevoli con il film, che però ha incontrato grosse difficoltà allorché la Weinstein Company (che ne aveva acquistato i diritti per la distribuzione nei paesi di lingua inglese) ha deciso che era opportuno tagliare 15-20 minuti. Per quanto l’idea sembri assurda a chiunque abbia visto il film, l’attrito sviluppatosi tra la società e il regista Bong ne ha ritardato l’uscita e limitato l’esposizione nel circuito festivaliero. Alla fine è stato raggiunto un compromesso per cui il film uscirà in sala senza tagli nel giugno di quest’anno negli Stati Uniti, ma su scala decisamente più ridotta rispetto alle intenzioni iniziali.

Snowpiercer è la punta di lancia per quanto riguarda le crescenti ambizioni dell’industria cinematografica coreana di mirare a un mercato globale e, in generale, ha avuto abbastanza successo, anche se un altro film del 2013 dal grosso budget e con ambizioni internazionali offre un ammonimento. Mr. Go, tratto da un famoso manhwa (libro a fumetti) coreano degli anni Ottanta, è stato un progetto di sorprendente audacia sin dal momento in cui è stato presentato. La storia è quella di un gorilla proveniente dalla Cina a cui una giovane domatrice di circo insegna a giocare a baseball e, quando un intraprendente agente sportivo sudcoreano viene a conoscenza della cosa, porta gorilla e domatore a Seoul per ingaggiare Mr. Go nella squadra di baseball coreana.

Con un budget di oltre 20 milioni di dollari, il film era destinato simultaneamente al pubblico locale e a quello cinese. È stato finanziato al 25% dalla società di distribuzione cinese Hwayi Brothers, e nel ruolo della domatrice è stata scelta l’attrice cinese Josie Xu (CJ7, Starry Starry Night). Tuttavia, i veri divi della produzione sono l’enorme gorilla e la magia della CGI nazionale, che hanno reso possibile il film. Dal punto di vista tecnico Mr. Go è innegabilmente impressionante, con il gorilla che si amalgama perfettamente con il resto dell’azione. Però il regista Kim Yong-hwa, che forse ha avuto un eccesso di autostima dopo il successone di Oh! Brothers (2003), 200 Pound Beauty (2006) e Take Off (2009), ha prodotto una sceneggiatura completamente priva di sfumature emozionali; così, anche se il film ha avuto un risultato di tutto rispetto in Cina, dove ha goduto di una buona distribuzione, in patria non è stato all’altezza assolutamente delle aspettative commerciali e ha finito per vendere solo 1,3 milioni di biglietti.

La maggior parte degli osservatori del settore si aspettava per la stagione estiva, che è la più importante dell’anno, un bel pareggio al botteghino tra Snowpiercer e Mr. Go, ma il ruolo dello sfidante è stato occupato, a sorpresa, da un altro film, uscito in sala lo stesso giorno di Snowpiercer.

The Terror LIVE, del regista Kim Byung-woo, sembrerebbe sfavorito sotto tutti gli aspetti. Anche se racconta la storia di un misterioso terrorista che fa saltare in aria uno dei principali ponti di Seoul, si svolge quasi interamente fra i muri di una emittente radiofonica; inoltre, il budget limitato di cui disponeva il regista non consentiva di avere un cast stellare; ma la sceneggiatura incisiva ha convinto un attore popolare e molto ammirato come Ha Jung-woo ad accettare il ruolo del protagonista. Ha domina la scena per quasi tutto il film, interpretando uno speaker radiofonico in disgrazia che si trova improvvisamente a conversare e negoziare alla radio con il sospetto terrorista. The Terror LIVE è un esempio da manuale di come si possano sfruttare risorse limitate per realizzare un film eccitante attraverso una storia agile e ottime interpretazioni; presso il pubblico locale ha funzionato bene anche la sua critica sociale inaspettatamente pungente.

Dopo essere stato proiettato come film di chiusura del diciassettesimo Puchon International Fantastic Film Festival, The Terror LIVE ha venduto un numero impressionante di biglietti (5,6 milioni) segnando la svolta commerciale del regista Kim Byung-woo, che in precedenza aveva diretto due film di genere a basso budget, Written (2007) e Anamorphic (2003).

Ma c’è stato un altro film estivo che, al pari di The Terror LIVE, si distaccava in modo interessante dalla prassi del cinema commerciale coreano. Cold Eyes è il remake di Eye in the Sky, un thriller hongkonghese del 2007 del regista Yau Nai-hoi. I co-registi Cho Ui-seok e Kim Byung-seo hanno affrontato una grande sfida trasportando la storia del primo film, che cattura benissimo gli affollati spazi urbani di Hong Kong, nel più ampio panorama metropolitano di Seoul, e hanno dovuto fare i conti con il fatto, raramente riconosciuto, che è estremamente difficile realizzare bene un remake. Eppure, non si sa come, i due sono stati persino in grado di riprodurre la fredda gamma cromatica di un noir di Hong Kong (cosa estremamente inconsueta per un film coreano) trasmettendo nel contempo alla storia un carattere distintamente coreano, e hanno fatto un uso molto interessante degli attori, assegnando loro ruoli opposti a quelli per cui vengono solitamente scritturati, ed evitando gli stereotipi per creare personaggi decisamente credibili. Il pubblico è rimasto molto colpito dal risultato, e lo ha dimostrato acquistando ben 5,5 milioni di biglietti.

È piuttosto rassicurante notare che molti dei film campioni di incassi del 2013 erano ben confezionati e sembravano cercare nuove strade. Certo, questo non si può dire di tutti i successi dell’anno (come nel caso dell’avvilente Secretly Greatly, i cui 7 milioni di ingressi sembrano derivare interamente dal potere divistico del protagonista Kim Soo-hyun).

Tra i molti film di budget medio che sono stati distribuiti, vi erano diverse storie banali e di durata inutilmente dilatata, ma c’è stata anche qualche sporadica sorpresa piacevole: Very Ordinary Couple, dell’esordiente Roh Deok, è una di quelle. Il film, un dramma sulla coppia pieno di umorismo misto a tristezza (ma non esattamente una commedia romantica), si apre con la dolorosa rottura di una relazione e descrive gli sforzi dei due protagonisti di essere felici ognuno per conto proprio, prima che inevitabilmente ritornino uno fra le braccia dell’altra. Attraverso le interpretazioni delicate di Kim Min-hee e Lee Min-gi, Very Ordinary Couple porta al cinema commerciale coreano una necessaria ventata di freschezza e di realismo. Date le forti pressioni commerciali e le limitazioni creative che solitamente vengono imposte ai registi esordienti, il successo di questo film è davvero degno di nota.

Altra piacevole sorpresa è stato il film Hope, del regista Lee Joon-ik (King and the Clown, The Happy Life). Molti spettatori hanno espresso con forza la propria opinione negativa su questo film ancor prima che uscisse in sala, perché tratto dalla sconvolgente vicenda autentica di una brutale aggressione con violenza carnale su una bimba di una scuola elementare. Ma quando poi è stato distribuito, il film, in cui gli elementi sensazionali e la violenza della vicenda erano stati attenuati per mettere al centro della storia la famiglia della bimba e gli sforzi della comunità per unire le forze, ha inaspettatamente conquistato il pubblico. A novembre Hope ha ottenuto il premio come miglior film ai Blue Dragon Film Awards, una delle due cerimonie di premiazione più importanti della Corea.

Dal canto loro, i film coreani indipendenti e quelli a basso budget continuano a mostrare una bella dose di creatività e raffinatezza, anche se devono lottare per riuscire ad attrarre spettatori in un mercato dominato dalle grosse società di distribuzione. Nel 2013 sono usciti in sala oltre sessanta lungometraggi a basso budget e una ventina di documentari, ma quasi esclusivamente in cinema d’essai o specializzati in film indipendenti. Si trattava di lavori molto eterogenei sul piano stilistico, come The Fake, struggente film di animazione su un uomo che costruisce una chiesa per raggirare gli abitanti di una cittadina rurale; Jiseul, un film in bianco e nero dall’umorismo cupo su un massacro di civili realmente avvenuto sull’isola di Jeju nel 1948; Rough Play, prodotto da Kim Ki-duk, sull’ascesa e il drammatico declino di un attore famoso; Pluto, che ritrae l’atmosfera oppressiva ed estremamente competitiva di un liceo coreano; Ingtoogi: The Battle of Internet Trolls, sui concorrenti di un gioco online la cui rivalità deborda nel mondo reale.

Quanto ai documentari, gli argomenti affrontati dai registi coreani continuano a essere quantomai eterogenei: la politica (Cheonan Ship Project), il buddhismo (On the Road), lo sciamanesimo (Silk Flower), il multiculturalismo (Hello?! Orchestra), il pugilato (The Ring of Life), la moda (Nora Noh), l’architettura (City: Hall), le compagnie teatrali tutte al femminile (The Girl Princes), e gli studenti di cinema completamente al verde (Lazy Hitchhikers’ Tour de Europe): tutti temi alla base di film divertenti e che fanno riflettere. I documentari coreani non sono mai stati così variegati e così interessanti.

Gli osservatori del settore spesso si preoccupano per gli squilibri di potere radicati nel cinema coreano e per i grossi limiti alla creatività che i cineasti sono costretti a tollerare per avere la speranza di raggiungere un vasto pubblico. Ma al momento vi sono due ragioni per essere ottimisti: l’ampio numero di elementi di talento ai quali l’industria del cinema può attingere (ogni anno, in Corea vengono realizzati all’incirca 1000 cortometraggi da studenti e registi indipendenti), e il ruolo centrale che il cinema svolge nella vita sociale della Corea del Sud. Andare al cinema e discutere dei film appena usciti è ormai qualcosa che fa parte della vita di tutti i giorni, non solo per i giovani, ma anche – in modo sempre più importante – per le famiglie, le persone di mezza età e gli anziani. Grazie a una demografia in espansione, il pubblico locale continua ad aumentare e, da questa prospettiva, forse la bolla può veramente continuare a crescere, almeno per qualche anno ancora.
Darcy Paquet