Il documentario come strumento nel mondo del XXI secolo: un’esplorazione del ricco passato del cinema asiatico e uno sguardo ai mass media di oggi

In occasione del diciassettesimo Far East Film Festival, che presenterà la seconda edizione di una sezione speciale sui documentari con i nuovi film non fiction provenienti dall’Asia, abbiamo scelto opere che esplorano la ricca scena del cinema asiatico nelle sue molteplici declinazioni, generi e sottoculture. Questi documentari sono venati di nostalgia, nel senso che la magia cinematografica può sprigionarsi anche da una cosa così banale e basata sul calcolo qual è la produzione filmica. Ma questo accade spesso, indipendentemente dalla fascia, alta o bassa, nella quale il film si colloca. Sotto la lente programmatica del Far East Film Festival, tutti i film sono creati uguali.

Altra costante di tutti i documentari presentati quest’anno è il cambio paradigmatico che sta investendo tutto il cinema, e la visione minacciosa di Internet che è sempre più veloce e maturo e spinge le nuove generazioni di potenziali spettatori a consumare contenuti sui loro tablet piuttosto che affollare le sale cinematografiche. L’ombra della scomparsa del cinema, come tutte le fasi della storia del cinema, è stata più un’idea catastrofica alla Chicken Little che un vero e proprio pronostico (ovvero, l’avvento della televisione ha portato nel cinema il colore e il cinemascope che hanno portato più spettacolo, che ha portato all’home video, che ha portato all’Imax e agli schermi giganti, che hanno portato ad Avatar, ecc.).

Ma per molti aspetti, forse questo scenario da giorno del giudizio sta accadendo davvero, visto che i mercati cinematografici statunitense e cinese imperversano con produzioni ad alto budget sempre più stupide e boriose, testate per il mercato da società mediatiche transnazionali che mirano al minimo comun denominatore del pubblico cinematografico disposto a pagare 18 dollari per vedere un film di robot in CGI interpretato da Mark Wahlberg. La cosa potrebbe essere destabilizzante per molti cineasti, visto che i mercati cinematografici regionali, soprattutto asiatici, vengono stritolati.

D’altro canto, la morte della celluloide e gli standard cinematografici dei DCP (digital cinema projection) sono stati una manna per i registi indipendenti, visto che tutto il processo di postproduzione può essere realizzato in casa, compresa la fase finale di masterizzazione dei file in un DCP da consegnare direttamente alle sale su una chiavetta USB (mi spiace per le società di postproduzione e per l’intero settore postproduzione in generale). La distribuzione digitale, che sia fatta nei cinema o in Ultra VOD o in IPTV, ha consentito ai registi indipendenti (compresi i documentaristi) di far conoscere il proprio lavoro eliminando interamente gli intermediari.

La sfida creativa affrontata dai registi protagonisti di Southeast Asian Cinema – When the Rooster Crows in una fase di profonda trasformazione della distribuzione cinematografica e di irrequietezza politica è uguale a ciò che sta accadendo attualmente nel cinema globale. Brillante Mendoza, Eric Khoo, Garin Nugroho e Pen-Ek Ratanaruang danno voce a una regione ricca di tradizioni, minoranze etniche, lingue, politiche e religioni. È un cinema che, nella sua forma più pura, combatte per la libertà di espressione, documentando la vita reale delle persone comuni e dando voce ai perdenti e agli emarginati, adottando nuovi generi e stili registici e facendoli propri.

Simile nella forma, nello spirito e nell’area di interesse è Garuda Power: The Spirit Within, un documentario che esplora la poco conosciuta storia dei film di azione indonesiani: la nascita dell’industria cinematografica locale, tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, il suo apogeo negli anni Settanta, il declino a metà degli anni Novanta e la rinascita con una rigenerazione attraverso i film della serie The Raid. Questo documentario è il perfetto kit per principianti, che mescola clip di centinaia di film, assemblati con amore dal regista Bastian Meiresonne e provenienti da film commerciali degli anni Settanta interpretati dall’icona di culto Barry Prima, a un uso saggio di interviste a critici cinematografici, studiosi e appassionati del genere in generale.

Passando dai film d’azione indonesiani di serie B a quelli austeri e raffinati della Studio Ghibli, venerata società di produzione giapponese di film di animazione, The Kingdom of Dreams and Madness di Sunada Mami offre un accesso inedito alla celebrata casa di produzione, seguendo per un anno intero i cineasti Miyazaki Hayao, Suzuki Toshio e Takahata Isao nella realizzazione di due film, Si alza il vento e La storia della principessa splendente. Scopriamo così che questi geniali e introversi registi sono incredibilmente stanchi e prevedono la fine della Ghibli, in parte a ragione, visto che non ci sono nuove produzioni in fase di avanzamento. “Il futuro è chiaro: finirà per chiudere”, afferma Miyazaki, che a più riprese è stato definito il Walt Disney giapponese. “Riesco già a vedere la fine. Che senso ha preoccuparsi? È qualcosa di inevitabile”.

Il quarto e ultimo documentario della sezione lascia da parte ogni nostalgia e guarda dritto al futuro. Nella sua ultima fatica, I Am Here, il cineasta pluripremiato Lixin Fan offre uno sguardo completamente nuovo sulla Cina contemporanea. Il film segue i giovani e impazienti aspiranti cantanti che si presentano alle audizioni per “Super Boy”, la gara canora televisiva più famosa del paese. Fan affronta la cultura popolare giovanile – quella generazione esperta di tecnologia, armata di smartphone e abituata a entrate precarie – e la sua tangibile ossessione per la notorietà. Si tratta di una corsa attraverso il concetto di moderna celebrità nella Cina continentale e della prossima fase di evoluzione del cinema e delle forme narrative.

I Am Here è un perfetto esempio della forma documentaristica della scuola di Margaret Mead: è classico e tradizionale nella struttura, ma esplora una cultura nuovissima e straniera di cui molti non sono al corrente, anche se si tratta di un fenomeno della cultura popolare che appartiene a oltre un milione di persone. La questione è che il format documentaristico è ancora più potente di un mezzo di informazione. Che si tratti di una boy band cinese che rincorre il proprio sogno di gloria o di un Inuit di nome Nanook che arpiona una balena che servirà da nutrimento a lui e alla sua famiglia durante la stagione più rigida dell’anno, ci sono ancora innumerevoli culture da esplorare che sono altrettanto lontane, strane e meravigliose.
Anderson Le