Le due diventano molto amiche durante le vacanze estive, ma in autunno, quando la scuola ricomincia, la loro amicizia viene minacciata da pressioni esterne.
Lai ha riscosso notevole successo con i suoi corti Guest (2011) e Sprout (2013). È stato grande il balzo per realizzare il suo primo lungometraggio?
Sì, è stato completamente diverso. Mi ero ormai abituata a girare cortometraggi, ma i problemi da risolvere quando si scrive una sceneggiatura per un film di lungometraggio sono così differenti che mi è sembrato di ricominciare da zero. Mi ha aiutato il fatto che il regista Lee Chang-dong è un mentore del programma KNUA-CJ, nell’ambito del quale è stato prodotto il film; così, quando lui ha fatto da guida agli altri registi e a me, ho imparato moltissimo su come funziona un lungometraggio e come i personaggi vanno sviluppati.
Che genere di consigli le dava Lee Chang-dong mentre lei sviluppava la sceneggiatura?
Sono stata scelta per questo progetto sulla base di un trattamento che aveva una storia decisamente diversa, incentrata sul bullismo nelle scuole. Ma alla fine ho mantenuto solo l’idea base della storia, e ho cambiato tutto il resto. Lo stesso è accaduto più o meno anche agli altri registi. Per tutta la durata del processo il regista Lee ha continuato a pormi domande del tipo: “Questa cosa ha senso?”, “È interessante?” E c’era una domanda in particolare che mi faceva spesso e che mi ha colpito molto. Diceva, “Credi in questa storia?”
In origine, avevo inserito alcuni elementi che credevo avrebbero reso più piacevole il film, ma mi sono poi resa conto che, soprattutto se una storia riguarda l’infanzia, nel momento in cui inizia a sembrare costruita o falsa crolla tutto il palco. Sono la regista, ma devo assolutamente credere nella storia affinché essa possa funzionare. Tra una cosa e l’altra ho impiegato quasi nove mesi a combattere con le domande che Lee mi faceva. Lui incute un po’ di paura. È stata un’esperienza intensa.
Le tre ragazzine protagoniste sono davvero notevoli, soprattutto se consideriamo che nessuna di loro aveva mai recitato prima in un film.
Come le ha trovate?
Sono state scelte tutte e tre attraverso dei provini. Abbiamo preso in considerazione un grandissimo numero di bambine, attraverso agenzie, scuole di recitazione, inviti aperti o semplicemente conoscenze personali. Il primo passo per me è stato quello di trascorrere mezz’ora con ognuna di loro. Non chiedevo loro di recitare, ma chiacchierando ero in grado di percepire chi avrebbe potuto fare cosa. Nella seconda fase le ho raggruppate in gruppi di sette/otto e ho chiesto loro di fare esercizi teatrali e giochi mentre le riprendevamo.
Ho anche dato loro una scena dicendogli di interpretarla con le loro parole. Hanno rifatto la stessa cosa anche nel terzo e nel quarto provino, e a quel punto abbiamo fatto la nostra scelta. Per tutta questa trafila sono stati necessari circa tre mesi.
Le loro interpretazioni nel film appaiono molto naturali e convincenti. Che genere di metodi ha usato per tirar fuori queste qualità nella loro recitazione?
Per me è stata una sfida. Innanzitutto abbiamo fatto due mesi di prove prima di cominciare le riprese. Invece di far loro imparare il dialogo a memoria, fornivo loro la situazione. Ad esempio dicevo: “Lei ha usato la tua matita senza chiedere, e tu sei veramente arrabbiata.
Dille che dovrebbe chiederti scusa”. Poi gliela facevo interpretare con le loro parole, come fosse un gioco. Ma man mano che il tempo passava, le situazioni che comunicavo loro erano sempre più legate alla trama del film. Anche durante le riprese, non gli ho mai fatto leggere direttamente il copione. Invece, dovevano interpretare le situazioni utilizzando parole proprie, e ormai a loro la cosa risultava familiare. A volte funzionava benissimo, ma ci sono stati alcuni momenti in cui ho dovuto dirigerle in maniera più diretta.
Quali altri registi l’hanno influenzata come cineasta,?
Ce ne sono talmente tanti che scegliere è difficile: i fratelli Dardenne, oppure, tra i coreani, Lee Chang-dong, Jung Ji-woo, Kim Tae-yong. C’è stato un periodo, circa una decina di anni fa, in cui ero dibattuta se continuare o meno a tentare la carriera di regista, e mi è capitato di vedere Nobody Knows, di Kore-eda Hirokazu. Quel film mi ha folgorato; mi ha mostrato un modo completamente nuovo di fare cinema, in termini di approccio e prospettiva. Adoro la sua opera e ogni volta che vedo un suo nuovo film mi viene voglia di realizzarne altri miei.
C’è qualcosa nel modo di Kore-eda di fare cinema che ammiro tantissimo, e che voglio imparare. Spesso lui descrive situazioni molto dolorose e difficili, ma le presenta sempre con una sorta di leggerezza, con semplicità. È una cosa per la quale lotto con me stessa. Quando filmo situazioni sofferte, il mio istinto sarebbe quello di presentarle in modo sofferto, ma ritengo che il suo approccio ti faccia entrare maggiormente nella storia.
Un’ultima domanda. Che tipo di regista vuole diventare in futuro? La situazione coreana non è affatto semplice, vero?
No, non è una situazione semplice. Tutto è collegato al denaro, ma è qualcosa a cui penso molto. Nel caso di questo film in particolare, ero molto felice durante le riprese. Avevamo un budget decisamente risicato, ma la nostra troupe e gli attori sono stati molto comprensivi al riguardo, e io sono stata in grado di raccontare una storia che volevo raccontare da tantissimo tempo.
Non credo che per me abbia senso fare la regista se non posso farlo con gioia. La realizzazione di un film è un processo lungo, di cui l’uscita in sala e il responso del pubblico è solo una piccola parte. Mi sono resa conto che per essere felice come regista ho la necessità di raccontare le storie che mi piacciono.
Ma credo che se mi capiterà di entrare nel mondo del cinema commerciale mainstream, per me sarà una vera sfida. Ogni volta che incontro qualche altro cineasta, mi informo sempre sulle loro esperienze. Ammiro registi come E J-yong che sono in grado di realizzare sia film commerciali che film indipendenti su scala più ridotta.
Penso che, con un po’ di incoraggiamento, potrei impegnarmi a girare film su piccola scala con le storie che mi va di raccontare. Dovrebbero esserci dei modi per registi con le stesse opinioni per lavorare insieme e sostenersi a vicenda.
Ma, stranamente, c’è qualcosa nella situazione coreana che ti fa sentire piccolo piccolo se realizzi questo genere di film. Quando il mio lungometraggio è stato presentato a Berlino, ho incontrato cineasti di altri Paesi che avevano anch’essi difficoltà nell’ottenere finanziamenti e che avevano difficoltà nel distribuire i loro film nel loro Paese. Eppure tutti erano orgogliosi di ciò che avevano fatto. Anche in Corea i registi hanno bisogno di incoraggiarsi a vicenda, e di essere orgogliosi del loro lavoro.