Il remake di un classico horror: intervista con Joko Anwar

— Che cosa l’ha spinta a rifare Satan’s Slaves (Pengabdi Setan)? Il film originale era uno dei suoi preferiti?

Sì, quando ero bambino era proprio il mio film preferito. Quando l’ho visto la prima volta, sbirciando attraverso la grata di ventilazione di una sala cinematografica, avevo sette anni. Poi l’ho rivisto, comprando il biglietto: lo trovavo fantastico e spaventoso. Il genere horror occupa un posto speciale nel mio cuore e ho sempre desiderato realizzare un film dell’orrore in piena regola, così ho pensato che Satan’s Slaves sarebbe stato un buon punto di partenza per provarci.

— Come ha affrontato il procedimento del remake? Quali erano gli elementi che voleva conservare e quali invece, a suo parere, dovevano essere attualizzati?

Ho cercato di convincere i produttori del film originale a permettermi di realizzarne un reboot. Ho insistito per anni fino a quando, alla fine, mi hanno detto di sì. Bisognava aggiornare la storia e gli elementi che incutono spavento, adeguandoli alla sensibilità odierna, perché l’originale era divertente ma decisamente datato (c’è persino un personaggio che combatte i demoni con un cuscino). L’atmosfera dell’originale però regge ancora, così ho ricreato quell’aura spaventosa per la nuova versione. Ho anche deciso di non limitarmi a un mero rifacimento, perché la trama dell’originale era troppo semplicistica, così ho preferito ricostruire l’universo della storia.

— Come ha scelto il cast? In particolare, per questo film ha lavorato per la prima volta con l’attore malaysiano Bront Palarae. Una scelta dettata dal suo potenziale di attrazione per il vicino mercato della Malaysia?

Tutti gli attori sono stati selezionati con un provino, eccetto Bront Palarae. Avevo già fatto una cinquantina di audizioni per quel ruolo ma non riuscivo a trovare quello giusto. A un certo punto ho chiesto a Bront se conosceva qualche malaysiano che potesse recitare la parte di un papà cinquantenne (allora Bront aveva trentaquattro anni), ma non trovavamo nessuno, di nessuna nazionalità, così alla fine ho proposto a Bront di farlo lui. Grazie al lavoro dei truccatori sembrava davvero molto più vecchio. Lui, poi, è un attore fantastico e se l’è cavata benissimo.

— Sebbene i film horror siano sempre stati un elemento basilare del cinema indonesiano, negli ultimi anni la loro rilevanza commerciale si è ridotta. Satan’s Slaves ha rilanciato questo genere, innalzandolo a un livello mai raggiunto prima. Che cosa è, secondo lei, che ha determinato un successo di questa portata? E pensa che questo trionfo segnerà il ritorno del film dell’orrore?

Penso che il pubblico si sia innamorato dei personaggi. Tutto il cast era eccellente, e persino il personaggio del fantasma è diventato un’icona. Sono convinto che il pubblico indonesiano ami questo genere cinematografico e che stesse proprio aspettando un film dell’orrore fatto come si deve. Eh sì, siamo stati fortunati.

— Dopo il successo di critica e di pubblico raccolto da Satan’s Slaves, come valuta la sua collocazione all’interno dell’industria cinematografica indonesiana? Crede di essere in una posizione migliore per pianificare i suoi futuri progetti? Quali sono le opzioni in gioco per i suoi prossimi film?

A dire il vero, questo non cambia il mio modo di vedere il cinema e il mio mestiere. Continuerò a raccontare le storie che ritengo interessanti. A volte racconto storie per prendere posizione, a volte per porre degli interrogativi, altre volte semplicemente per divertire. Diciamo che ora è diventato più facile ottenere il via libera per i miei progetti, ma la fatica per realizzarli ci sarà sempre [ride].
Paolo Bertolin