Storie dell’orrore: il cinema indonesiano nel 2017

L’anno 2017 nel cinema indonesiano sarà certamente ricordato per il ritorno alle glorie del botteghino, sorprendente e inatteso, ma assai confortante per il genere horror. Da sempre uno dei capisaldi della produzione dell’arcipelago del Sud Est asiatico, fiore all’occhiello dell’esportazione audiovisiva locale ai tempi dell’epoca d’oro dell’exploitation, il cinema “di paura” negli ultimi anni aveva battuto la fiacca sugli schermi di Jakarta. Tant’è che con il progressivo calare degli incassi, anche il numero di pellicole horror prodotte ha conosciuto una sensibile flessione. Un fenomeno che d’altronde trovava una giustificazione nella bassa qualità media delle produzioni horror che ne ha determinato svalutazione e disaffezione presso il pubblico.

Ed è stata forse proprio una svolta nelle ambizioni produttive e creative, nonché un diretto ispirarsi ai classici della tradizione locale del genere, ad aver fornito una solida spalla a questo ritorno. Una riscossa guidata dal successo senza precedenti di Satan’s Slaves (Pengabdi Setan), il nuovo film di un amatissimo habitué del FEFF di Udine, Joko Anwar. Remake di un’omonima pellicola dei primi anni Ottanta, diretta da Sisworo Gautama Putra, che a sua volta si ispirava a Phantasm (1979) di Don Coscarelli, Satan’s Slaves è un progetto che Joko Anwar inseguiva da tempo e che finalmente ha ricevuto il via libera dopo che il suo film precedente, A Copy of My Mind (2015), ha partecipato con successo ai festival di Venezia e Toronto. Prodotto, come l’originale, dalla Rapi Films, il film di Joko Anwar è uscito lo scorso settembre e ha subito conquistato il botteghino locale, imponendosi, con oltre quattro milioni di spettatori, non solo come più grande successo locale dell’anno, ma anche come horror indonesiano di maggior successo di tutti i tempi. L’ambizione e la cura nei dettagli della produzione hanno sicuramente ripagato lo sforzo di Joko Anwar, che ha registrato il più grande successo della sua carriera, siglando un’importante svolta nella produzione nazionale. Satan’s Slaves è infatti divenuto un successo epocale al di là dei confini nazionali, battendo i record d’incasso per il cinema indonesiano nella vicina Malaysia e incontrando ampi consensi in tutta la regione.

Il trionfo di Satan’s Slaves è arrivato a coronamento di un’annata in cui il pubblico locale aveva però già dimostrato un chiaro orientamento verso terrore e brividi. A fine marzo, Danur: I Can See Ghosts di Awi Suryadi, adattamento di un romanzo di successo, aveva superato i 2,7 milioni di spettatori. In giugno, Rizal Mantovani, che aveva rilanciato la produzione horror all’alba del millennio con Jelangkung (2001) e la trilogia di Kuntilanak (2006-08), ha raccolto oltre 2,5 milioni di spettatori con il reboot Jailangkung, co-diretto da Jose Poernomo. A luglio, The Doll 2 di Rocky Soraya ha superato 1,2 milioni di biglietti venduti, come pure il film successivo dello stesso regista Mata Batin, distribuito a fine novembre. Tutti i titoli summenzionati sono rientrati tra i dieci film nazionali più visti dell’anno. Una top ten, quindi, con ben cinque horror!

E il campionario dei film horror che hanno conquistato il botteghino indonesiano nel 2017 è anche rappresentativo di tendenze di mercato che già segnalavamo lo scorso anno e che stanno allineando strategie produttive e pratiche di consumo delle platee indonesiane a quelle globali. In particolare, anche in Indonesia, oramai, l’evento cinematografico che riempie le sale dei multiplex si crea principalmente sulla base di credenziali che hanno già provato la loro proficuità. Non solo attraverso l’ovvia ricetta della serialità, come nel caso di The Doll 2, ma pure attraverso gli esempi dei remake e dei reboot, come Satan’s Slaves e Jailangkung, in cui il materiale di pregresso successo è già cinematografico, o degli adattamenti di best seller, come nel caso di Danur: I Can See Ghosts. Dinamiche ulteriormente confermate dagli altri titoli che compongono la rosa dei film nazionali di maggior successo dell’anno, dove Warkop DKI Reborn: Jangkrik Boss Part 2 di Anggy Umbara, che ha superato i quattro milioni di spettatori, è il seguito del campione d’incassi 2016, a sua volta rivisitazione (o “rinascita”, come da titolo) della comicità del terzetto comico più popolare del cinema indonesiano tra anni Ottanta e Novanta, e dove i drammi romantici a tematica religiosa Ayat-Ayat Cinta 2 di Guntur Soeharjanto e Surga Yang Tak Dirindukan 2 di Hanung Bramantyo e Meisa Felaroze sono entrambi seguiti di successi tratti da romanzi popolari.

Del resto, si tratta di un’evoluzione, ma anche di corsi e ricorsi inevitabili nella parabola dell’industria cinematografica locale, nel momento in cui la cultura del cinema da centro commerciale avanza a spron battuto. Con la crescita della competitività nel settore dell’esercizio portata dall’ingresso nel mercato indonesiano dagli operatori coreani, il numero di sale nel paese è cresciuto a 263 nel 2017, per un totale di 1412 schermi. Una cifra ancora assai limitata per un paese di oltre 200 milioni di abitanti. E come già rilevato negli scorsi anni, la distribuzione di queste sale e schermi rimane ampiamente sperequata rispetto al territorio nazionale, giacché il 70% è ubicato nella sola isola di Giava. A Jakarta, peraltro, si sta diffondendo nelle aree più affluenti il nuovo fenomeno dei “mini-cinema”, sale di alcune dozzine di posti ubicate all’interno di complessi residenziali che programmano film di prima visione.

Oltre alla mancanza di sale e alla loro distribuzione diseguale sul territorio nazionale, un’accurata ricerca del sito filmindonesia.or.id ha messo il dito su un’altra causa del “sottosviluppo” cinematografico indonesiano: l’esorbitante prezzo dei biglietti. La ricerca in questione ha comparato salari medi e costi medi dei biglietti cinematografici in alcuni paesi asiatici. Ne risulta che in Corea del Sud uno spettatore ha bisogno di lavorare solo 38 minuti per potersi permettere di vedere un film; in Malaysia ce ne vogliono 44. In Thailandia, invece, si devono lavorare 130 minuti per un biglietto del cinema. In Indonesia, però, si arriva addirittura a 197 minuti, ossia più di tre ore. Una ricerca che rivela una correlazione innegabile con il corrente stato di salute del box office e dell’andare al cinema nei paesi interessati. A dimostrazione di come, purtroppo, in Indonesia più che altrove andare al cinema non sia un divertimento che tutti si possono permettere.
Paolo Bertolin