Le strane coppie

Rifacimenti e adattamenti da altri film hanno sempre fatto parte del DNA del cinema. Ad esempio, negli anni Trenta del secolo scorso i fratelli Lumière hanno rifatto in 3D, utilizzando la loro propria tecnologia, uno dei loro primi film, L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (L’arrivée d’un train en gare de La Ciotat, 1896). Il primo remake hollywoodiano di un film asiatico è stato Genghis Khan (1956) di Dick Powell, che prendeva spunto dal classico filippino di Manuel Conde Ang Buhay ni Genghis Khan (1950). In seguito un altro regista di Hollywood, John Sturges, ha realizzato I magnifici sette (1960) adattando I sette samurai di Kurosawa (1954). All’inizio del ventunesimo secolo Hollywood è stata dalla colpita dalla febbre del remake in versione asiatica. Il rifacimento americano di The Ring (Gore Verbinski, 2002) è stato un successo al botteghino e ha aperto la strada ai remake di horror giapponesi e coreani come Ju-On the Grudge (Shimizu Takashi, 2002, che non è tanto un remake quanto un supplemento americano), con esiti disomogenei. Si potrebbe dire che il merito principale dei remake degli horror giapponesi sia stato quello di portare a Hollywood i due registi giapponesi Nakata Hideo e Shimizu Takashi, la seconda ondata di registi asiatici a lavorare in America dopo gli hongkonghesi John Woo, Ringo Lam, Kirk Wong.

La storia dei remake e degli adattamenti transnazionali è un viaggio attraverso le differenze e le connessioni culturali. Non è esattamente una narrazione nello stile di “l’Oriente incontra l’Occidente”, né è una storia di appropriazione culturale neocolonialista; è qualcosa di più simile alla “grammatica trasformazionale” di Noam Chomsky o a un esercizio barthesiano nell’“impero dei segni”: il remake riduce cioè l’originale alla sua essenza percepita, per poi quasi reinventarlo in un altro universo di significato. Con un’analisi attenta, i remake e gli adattamenti possono dirci molto sui concetti di narrazione e di personaggio nelle diverse culture. Allo stesso tempo, anche una lettura superficiale dimostra che la storia del cinema è una storia di prestiti: Hitchcock e l’espressionismo tedesco, la Monument Valley e gli spaghetti western, l’azione inventiva e selvaggiamente violenta del cinema di Hong Kong degli anni Ottanta e la Hollywood di Tarantino e Rodriguez del tardo ventesimo secolo, tutti ispirati a Sam Peckinpah. Un buon regista sa riconoscere una buona idea quando ne vede una, un regista geniale fa in modo che sembri un’idea sua!

Questo programma rappresenta un primo passo per esaminare il rapporto tra le diverse industrie e culture cinematografiche, in termini di ispirazione, influenza, revisione, omaggio – o anche solo di plagio! L’abbinamento dei film ci consente di vedere i cambiamenti apportati per il pubblico di un altro paese, con i suoi diversi limiti e accenti. Con simili prospettive quella che si delinea è una storia del cinema differente, che esiste forse nell’immaginazione senza confini. Speriamo che questo primo tentativo dia il via a future edizioni che analizzino altre opere provenienti dall’Asia.

A guisa di introduzione all’argomento partiamo dal cinema di Hong Kong, senza dubbio e per molti anni la più aperta delle cinematografie asiatiche (anche se le Filippine degli anni Sessanta vi si avvicinano di molto). Come porto commerciale per oltre cento anni, come colonia britannica e poi come Regione Amministrativa Speciale cinese, Hong Kong è stata uno snodo cruciale tra molte influenze e culture diverse. A volte, Hong Kong ha assorbito e rielaborato questi prodotti e queste idee, trasformandole in componenti della propria identità e personalità nella sua trasformazione da sonnolenta colonia sperduta a dinamica forza economica sullo scacchiere mondiale.

Come luogo in cui Est e Ovest si incontrano, è ovvio che Hong Kong sia stata pionieristica nell’adattare e sintetizzare storie occidentali all’interno di un’identità orientale. È una pratica che nel dopoguerra è stata applicata, ad esempio, nell’industria tessile e delle confezioni, ma anche al cinema. Contemporaneamente, la crescita postbellica di Hong Kong negli anni Sessanta e la sua florida industria cinematografica hanno attirato l’attenzione dell’Occidente: Hong Kong è diventata per un certo tempo una location “esotica” ideale per i film di Hollywood (Il mondo di Suzie Wong (1960) e L’amore è una cosa meravigliosa (1955) ne sono due validissimi esempi) e in seguito, negli anni Settanta, per produzioni a basso budget come ad esempio la coproduzione targata Hammer-Shaw Bros. Un killer di nome Shatter (1974, regia attribuita al produttore Michael Carreras ma opera soprattutto di Monte Hellman – il suo commento laser disc è un cult) e Cleopatra Wong di Bobby Suarez (alias George Richardson, 1978) con la star di Singapore Merrie Lee. Non dobbiamo dimenticare che Hong Kong è tuttora la location di elezione per film di Hollywood come Il cavaliere oscuro, Transformers 4 – L’era dell’estinzione, Ghost in the Shell, Skyscraper.

La chutzpah (sfrontatezza) di Hong Kong, grazie alla quale la città è diventata uno dei principali porti e centri finanziari del mondo, è evidente nella circolarità di idee e prodotti: prendere a prestito, confezionare, rivedere. I western di Sam Peckinpah hanno influenzato l’azione cinetica di John Woo, che a sua volta ha avuto un impatto decisivo sul nuovo cinema americano di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez. Di questa circolarità del cinema è forse un buon esempio The Departed – Il bene e il male, il film di Martin Scorsese del 2006 premiato con l’Oscar, che è il remake di Infernal Affairs (2004) di Andrew Lau e Alan Mak.

Un caso insolito nella storia del cinema invece è rappresentato da My Name Ain’t Suzie (1985), versione riveduta da Angie Chen del classico di Hollywood Il mondo di Suzie Wong, tratto dal romanzo di uno scrittore britannico ispirato al soggiorno in zone esotiche del pittore post-impressionista francese Paul Gauguin. Il film di Chen è la risposta all’ethos del Cavaliere senza macchia e senza paura del cinema occidentale, a partire da uno dei primi film interpretati da Anna May Wong, Fior di Loto (1922, regia di Kenneth Harlan, che aveva preso spunto dall’orientalismo del romanzo reso popolare dall’opera Madama Butterfly di Puccini). Ecco un esempio di autentica dialettica del cinema in cui, proprio come tutte le altre arti, le idee e le pratiche sono adottate, ri-pensate e ricreate in forma di critica, di revisionismo o di omaggio.

È proprio perché il cinema hongkonghese è stato influenzato e formato da diverse fonti, orientali e occidentali, che rimane ancora attuale. Il cinema di Hong Kong è emerso come l’estetica filmica di fine ventesimo secolo e, da allora, il cinema non è stato mai più lo stesso.
Roger Garcia