Ho visto Il mondo di Suzie Wong a dodici anni e mi ha profondamente impressionata. Anche se ero solo una bambina, avvertivo già il pathos della prostituta Suzie, che vendeva il suo corpo a degli sconosciuti e perdeva il figlio, inghiottito dal fango di Hong Kong. Era un dramma romantico del 1960, visto da una prospettiva maschile e occidentale.
Molti anni dopo, tornando a Hong Kong dall’America, ho deciso di raccontare la storia da una prospettiva femminile e hongkonghese, per cercare di scavare più a fondo nella psiche di una prostituta che andava con i marinai negli anni Cinquanta e Sessanta. È stata, si può dire, la mia reazione a Il mondo di Suzie Wong e da questo deriva il titolo My Name Ain’t Suzie. Il film ha preso forma nel 1984, frutto di ricerca e di immaginazione. Lo sceneggiatore Chan Koon-Chung ed io abbiamo trascorso diverso tempo con vere intrattenitrici di Wan Chai (che alla fine sono state scritturate come figuranti) e abbiamo inserito nel film vicende storiche autentiche: c’era veramente una donna bizzarra vestita di giallo che vagava per le strade di Wan Chai! E in effetti negli anni Cinquanta molte ragazze dei locali notturni venivano reclutate nei piccoli villaggi rurali di Hong Kong. All’epoca molti locali erano gestiti da immigrati cinesi provenienti dalla provincia settentrionale di Shantung che, casualmente, costituivano anche una parte significativa delle forze di polizia, probabilmente per via della loro corporatura alta. Il film ha ritratto la vita di una prostituta dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, offrendo un’immagine meno edulcorata della versione hollywoodiana. Parlava di lotta, di difficoltà, di amore e di abbandono. Era una storia di donne.
Cercando di rimanere fedele all’autenticità e ai personaggi, ho fatto diversi provini prima di scegliere i due protagonisti. Anthony Wong (col nome di Anthony Perry) è stato scelto perché eurasiatico e senza un padre, di cui era alla disperata ricerca. Anche Jimmy, il personaggio maschile, era eurasiatico, un giovane arrabbiato abbandonato dal padre bianco. All’epoca era un fenomeno piuttosto diffuso: molti bambini eurasiatici, figli di marinai occidentali o funzionari pubblici, erano stati abbandonati. È stato il primo film di Wong, che in seguito è diventato un attore drammatico celebre e stimato. Patricia Ha è stata scelta per il suo spirito libero, aperto e tenace, che era perfetto per il personaggio di Shui Mei Lai.
Dietro al film c’era Mona Fong, il capo della Shaw Brothers Picture. Non era un compito facile, in quanto il progetto sembrava enorme e costoso in termini di scenografie e di costumi, che dovevano coprire un periodo di trent’anni. Io ero una regista giovane e avevo un solo film all’attivo e questo rappresentava un grosso rischio per lo studio. La realizzazione del film richiedeva una certa dose di ingegnosità e di intraprendenza. Con la benedizione di Fong, siamo riusciti ad affittare un edificio abbandonato a Wan Chai, abbiamo costruito la facciata del bar principale, ricreato la Wan Chai degli anni Cinquanta e girato nelle vere strade del quartiere.
La maggior parte del film, tuttavia, è stata girata in interni nei teatri di posa, mentre alcuni dei costumi vintage sono stati acquistati in alcuni negozi di abiti usati di Londra, perché costava meno che farli a Hong Kong. Abbiamo cercato diligentemente materiali di scena vintage, come i risciò, che erano un’icona dell’epoca ma ora a Hong Kong sono spariti. Siamo stati molto fortunati.
È durante la fase di post-produzione che sono emersi contrasti tra me e Mona Fong. Di conseguenza, il film è stato sostanzialmente messo da parte, ricevendo scarsissimo sostegno per la presentazione e per la distribuzione. È stato invitato a festival cinematografici all’estero ma la risposta della produzione era invariabilmente: “Non possiamo permetterci di mandarlo da nessuna parte. Niente da fare”.
È stata una fase deludente, sia per il film che per me stessa, tanto che ho lasciato il cinema per cimentarmi nella realizzazione di spot pubblicitari. Solo nel 2008 ho ricominciato a realizzare film documentari indipendenti.
Se ripenso alla realizzazione del film, devo dire che ero soddisfatta della collaborazione con la produzione, gli attori, lo sceneggiatore, lo scenografo, la costumista, la scrupolosissima troupe, le autentiche ragazze da bar e le comparse. È stata un’impresa gioiosa, colorata e audace. Di recente, dopo la proiezione di My Name Ain’t Suzie a Hong Kong in occasione di una retrospettiva, Anthony Wong mi ha raccontato quale era stata la sua prima impressione durante la lavorazione, trentacinque anni fa:
“Le riprese erano frenetiche, animate, scoppiettanti di energia. C’erano molte persone di lingua inglese sul set: il direttore della fotografia Bob Huke, la costumista Colette Koo e la regista; io ero sopraffatto dallo stupore. Ero davvero un novellino e non mi ero reso conto di essere piuttosto belloccio all’epoca!”
A trentacinque anni di distanza da allora, sono felicissima che il mio film si avventuri fuori da Hong Kong per giungere al Far East Film Festival. Grazie a tutti voi, a Roger Garcia, a Sabrina Baracetti e a Kiki Fung che l’hanno reso possibile!
Angie Chen