Suzie contro Suzie

La produzione hollywoodiana Il mondo di Suzie Wong (1960) ha portato Hong Kong alla ribalta internazionale e ha fatto di Nancy Kwan (al suo debutto sul grande schermo) la prima diva hongkonghese riconosciuta a livello internazionale (in seguito Kwan ha interpretato un’altra pietra miliare, Fior di loto, nel 1961). Il romanticismo esotico e la prospettiva maschile occidentale che infondono Il mondo di Suzie Wong sono parzialmente sottoposti a critica in My Name Ain’t Suzie (1985), film della regista hongkonghese Angie Chen che ha anche il merito di aver portato sullo schermo una serie di nuovi divi, tra i quali l’esordiente Antony Perry (noto in seguito come Anthony Wong Chau-sang) e di avere scritturato l’ineguagliabile Pat Ha, che sarebbe decisamente ora di riscoprire.

Con il suo technicolor fascinoso e i poetici movimenti di camera, Il mondo di Suzie Wong si apre sul traghetto che attraversa il porto di Hong Kong. Robert Lomax (William Holden) inizia a tracciare il ritratto di un vecchio in abiti tradizionali, ma ben presto la sua attenzione si sposta sull’altrettanto esotica ma bellissima Suzie (Nancy Kwan). In questo contesto, l’atto di disegnare non è dissimile dall’atto di filmare e stabilisce la prospettiva del film: un americano che guarda l’orientale attraverso i propri occhi. Questo piccolo dettaglio è indicativo di come il forestiero (sia il regista che il personaggio) sia per natura attratto, se non limitato, da ciò che corrisponde alle sue aspettative o alle sue fantasie sull’Oriente.

Non sorprende che Robert venga descritto come un uomo superiore: un poliziotto avverte Robert che Wan Chai (all’epoca, un quartiere operaio dell’isola di Hong Kong famoso anche per i suoi locali e per la zona a luci rosse) non è posto per lui. La vita quotidiana di Hong Kong è descritta realisticamente ma in modo parziale: attraverso lo sguardo perplesso di Robert vediamo persone che trasportano cibo e merci su lunghi pali appoggiati sulle spalle, risciò, mercati straripanti di cibo di strada, pesce sotto sale, oche arrostite e ogni sorta di incredibile delizia. Lo spazio in cui vive la popolazione locale è fatto di povertà, arretratezza e caos; mentre per il banchiere britannico e per sua figlia Kay (la rivale romantica di Suzie) la vita è comoda, moderna e strutturata.
Questo però non significa che Il mondo di Suzie Wong non sia un film piacevole, anzi: in tutta onestà, questa visione orientalista così variegata di Hong Kong è orchestrata in modo tale da inserirsi con naturalezza nella logica della storia e, conformandosi alle aspettative di una consumata storia d’amore hollywoodiana, è anche un’eccezionale dimostrazione della fluidità visiva e dello storytelling strutturato del cinema hollywoodiano classico.

My Name Ain’t Suzie (1985) inizia di notte, con i neon che illuminano il quartiere di Wan Chai riflessi sul finestrino di un’automobile, vertiginosamente invertito. Il proprietario di un locale racconta come, negli anni Cinquanta, un gruppo eterogeneo di intrattenitrici da bar, accattoni e delinquenti si approfittavano dei marinai stranieri che frequentavano la zona. Il contrasto è immediato: il film di Chen espone la vita nel quartiere a luci rosse da una prospettiva locale autentica. Invece di deliziare lo spettatore con una storia d’amore, concentra principalmente la sua attenzione sulla dura realtà di una ragazza da bar in una società dominata dagli uomini.

Il calvario della protagonista Shui-mei (Pat Ha), la ragazza di un sampan diventata prostituta, è iniziato con uno stupro di gruppo, avvenuto sulla barca e sottinteso dal film. Dopo essere stata “selezionata” come la “fortunata” che lavorerà in un bordello, lei e le sue colleghe dovranno destreggiarsi in un groviglio di clienti maschilisti e a volte irragionevoli, e anche difendersi dai criminali, anche dopo che la protagonista si è affermata come una delle figure di spicco del settore. La lotta è esacerbata dai giochi di potere all’interno del mondo femminile: competizione, gelosia, invecchiamento.

Una sottotrama interessante e di rilievo del film di Chen è la nostalgia malinconica per le radici perdute, incarnata dal personaggio di Jimmy (interpretato da Anthony Wong), un ragazzo di sangue misto che sta cercando ossessivamente di rintracciare il padre bianco che non ha mai conosciuto. La vicenda allude all’esito di molte storie d’amore dalla vita breve maturate in quelle circostanze, simili a quella sbocciata tra Suzie e Robert. Il personaggio di Jimmy sarebbe stato ispirato da due film hollywoodiani del 1955, Gioventù bruciata di Nicholas Ray e La valle dell’Eden di Elia Kazan – un primo piano di James Dean è perfino utilizzato come fotografia del padre di Wong!


La prospettiva di genere

È difficile non notare l’oggettivazione della figura femminile in Il mondo di Suzie Wong: quasi tutte le donne cinesi sono sessualizzate e impegnate in relazioni con gli uomini, con le curve messe bene in evidenza dai loro cheongsam; al contrario, Kay, la donna bianca, appare sempre composta e ben educata.
Quando Suzie si presenta indossando un abito nuovo e attillato, mentre Kay se ne sta andando dopo aver posato per Robert, la macchina da presa zooma sul corpo di Suzie e poi fa una panoramica verticale in una sola inquadratura, dai tacchi alti fino al viso, apprezzando il suo corpo voluttuoso.
La sequenza viene immediatamente neutralizzata dalla risposta moralista di Robert, che le chiede di togliersi quell’abito “orribile”. Deve prenderlo alla lettera? Com’è ovvio, Robert le toglie brutalmente il vestito e il pubblico è indotto a credere che Robert stia mettendo in pratica la sua posizione morale (perché l’abito la fa sembrare una “ragazza facile”), ma la regia del film, il fervore della macchina da presa nel mostrare il corpo di Suzie e la sua svestizione, rivelano l’espressione codificata del desiderio di Robert per lei e, in definitiva, lo sguardo maschile.

My Name Ain’t Suzie invece tenta di stabilire una soggettività femminile, anche se la sua professione è spesso considerata inferiore. Per Shui-mei e le sue compagne non c’è nulla di cui vergognarsi in quello che fanno e invece di considerarlo una condizione che determina una situazione di sfruttamento lo reputano un modo per trarne “profitto”. In una scena in cui le ragazze spettegolano sui loro clienti, i genitali maschili sono indicati, metaforicamente, con i nomi di vari tipi di granchi e gamberetti. In precedenza, le donne si riferivano agli uomini bianchi come “i biondi dagli occhi verdi” (tradotto più letteralmente, “gwai dai capelli rossi” – come in gwai-lo, la parola che in cantonese designa gli occidentali). Al di là del loro effetto comico, tali racconti incoraggiano queste donne a superare la loro posizione passiva e ad assumere il controllo delle loro situazione.
La caratterizzazione di Suzie si adatta perfettamente alla concezione patriarcale della donna: la sua bellezza e il suo sex appeal nascondono una certa vulnerabilità; mentre la sua posizione svantaggiata di donna povera e madre single, abbandonata da un funzionario governativo privilegiato, consente a Robert di consolidare la propria figura di soccorritore forte.
Per quanto eserciti attivamente il suo fascino e porti avanti il suo amore per Robert, Suzie è poco più che un personaggio passivo, indifferente alle questioni dell’identità. Shui-mei invece è molto diversa: una comica sequenza di arresti successivi (per prostituzione) mostra come Shui-mei e le colleghe prostitute si prendano gioco della polizia con il loro atteggiamento frivolo. Ancora una volta, è un atto di conquista e di sovversione.


Soggettività: distruzione contro consolidamento

Verso la fine di Il mondo di Suzie Wong, il crollo della casa di Suzie simboleggia il collasso dell’ultima e più importante barriera esistente tra lei e Robert: il bambino.
La morte del figlio di Suzie non è una coincidenza, né soltanto un espediente drammatico: Robert riesce a dichiararsi adeguatamente a Suzie solo dopo la morte del bambino. Entrano in gioco valori patriarcali profondamente radicati e il pregiudizio razziale: prima Suzie deve rinunciare alla prostituzione, poi deve essere vulnerabile e infine il suo bambino giallo deve uscire di scena. Il fatto che Robert preferisca una ragazza orientale analfabeta dal passato ambiguo a una donna inglese colta e altolocata non è una cosa da poco, ma questo atto progressista in fin dei conti è conservatore. È, sì, una storia d’amore, ma anche un processo di “recupero” che fa di Suzie una donna socialmente accettabile.

Suzie deve cambiare per un uomo, mentre Shui-mei cambia per se stessa. Se Il mondo di Suzie Wong mette in scena un processo di conquista e di ricostruzione, My Name Ain’t Suzie è incentrato su un processo di trasformazione. Anche per Shui-mei il bambino deve morire, ma per ragioni molto diverse: è costretta a compiere questa scelta per sopravvivere nell’ambiente in cui sta semplicemente cercando di farsi strada. L’orrore dell’aborto riflette il dolore dello sfruttamento. Tuttavia, Shu-mei riesce ad affrontare questi sentimenti, a superarli e infine a usarli per affermarsi come una donna capace di gestire un’azienda in una rete di uomini e potere: ecco perché questo film parla del consolidamento più che della distruzione della soggettività di una donna.
Nel film di Chen è particolarmente significativa la considerazione che le giovani prostitute hanno per l’Occidente: ventidue anni dopo l’Handover, la maggior parte degli hongkonghesi preferisce ancora vivere nel sogno di un sentimento postcoloniale e sceglie su diversi livelli la cultura occidentale, restia ad abbracciare e comprendere la propria identità culturale. Il film di Chen era in anticipo sui tempi negli anni Ottanta del secolo scorso, e lo è anche oggi.
Kiki Fung