Premere il salvavita: i film di Singapore nel 2020/21

I registi e il pubblico di Singapore hanno rispettato le restrizioni del lockdown – battezzate collettivamente “interruttori salvavita” – imposte dal pragmatico governo. In un primo momento i cinema sono stati chiusi, poi sono state consentite proiezioni controllate al 50% della capienza per ogni sala. Le mascherine erano obbligatorie, e questo significava niente snack: i ricavi sono diminuiti e gli esercenti sono stati costretti ad affrontare l’inevitabile e attrezzarsi per proiezioni in VOD.   

Queste misure dovrebbero inibire la disponibilità di film per il pubblico cui sono rivolti. Ma è vero anche per i film di Singapore? Fin dall’inizio, sembrava che tutto andasse avanti come al solito. Il cinema più commerciale di Singapore, che si identifica nella produzione annuale di Jack Neo e di altri registi con obiettivi analoghi, ha continuato a fatica a mantenere il livello di presenze abituale. 

Tra gli ultimi mesi del 2020 e i primi del 2021 Neo è riuscito a distribuire in sala, sotto forma di una serie in più parti dal titolo Long Long Time Ago, due lungometraggi: The Diam Diam Era e The Diam Diam Era 2. Stavolta Neo racconta la rigida scena politica di Singapore negli anni Settanta e negli anni Ottanta del secolo scorso nello stile tipico delle sitcom. Ma il successo più grande è stato ottenuto da Number 1 di Ong Kuo Sin, che è stato candidato ai premi per il miglior attore protagonista, per i migliori costumi e per il miglior trucco alla 57° edizione dei Golden Horse Awards, suscitando l’attenzione dei media. 

Per quanto riguarda i film da festival, è una fortuna che il Singapore International Film Festival si svolga proprio alla fine dell’anno. È stato annunciato un programma davvero corposo, con la possibilità di visione in streaming per molti dei titoli. Tra i cinque titoli di Singapore presentati in anteprima al festival lo scorso anno, quello che ha suscitato maggiore attenzione è stato il film di apertura, Tiong Bahru Social Club di Tan Bee Thiam, una stravagante satira sociale che nel catalogo è descritta come “Wes Anderson incontra Black Mirror”. Il film, che inizia in modo frivolo ma incisivo, perde però mordente quando l’infelice protagonista inizia a vagare senza meta nel cuore dell’eponimo complesso residenziale, alla ricerca di uno scopo.

E uno scopo lo si può trovare nei documentari, presentati in anteprima in sale esaurite (anche se a metà capienza). Entrambi i lungometraggi documentari del festival sono stati realizzati da registi esordienti. Citizen Hustler di Tan Biyun ha adottato un approccio classico nell’illustrare la vita degli anziani bisognosi di Singapore documentando come sbarca il lunario una coppia di venditori ambulanti. Sulla spinta della personalità chiassosa dei soggetti, il documentario riesce per lo più a vivacizzare argomenti già noti.

All’altra estremità dello spettro, i registi Chew Chia Shao Min e Joant Ubeda sono scesi in strada per catturare lo spirito delle celebrazioni per il cinquantenario dell’indipendenza di Singapore, nel 2015. Il loro curioso e disinvolto documentario Sementara (significa “temporaneo” in lingua malese) è infarcito di cerimonie religiose intervallate da immagini di svaghi. Gli autori hanno mostrato gli spettacoli della parata della Giornata Nazionale insieme a scene girate dopo la sfilata: viene in mente la parola malese rawak, che più o meno significa “a casaccio”. Gli autori hanno inoltre costellato il film di brevi interviste estemporanee, come in Le joli mai di Chris Marker, e il risultato è l’espressione commovente dei sentimenti del Paese.

L’esperienza cinematografica più sostanziale del 2020 (escluse le visioni da casa) è rappresentata dal documentario ibrido sulla danza di Liao Jiekai, Faraway My Shadow Wandered. Girato in Giappone, dove Liao lavora attualmente, il film presenta elementi di documentario e coreografie di danza che si intrecciano con grande efficacia. Faraway My Shadow Wandered costituisce il fondale perfetto per il 2020, con la sequenza finale di una performance di danza eseguita in mezzo a una tempesta in piena regola, su una spiaggia desolata dalla quale arrivavano le prime avvisaglie di una nevicata. 

Tutti i film citati sono stati realizzati prima della fine del 2019 e non hanno subito le restrizioni legate alla pandemia. Chissà se il prossimo anno il saggio sul cinema di Singapore per il FEFF sarà pieno di storie di film realizzati in condizioni dettate dalla sicurezza, e se saranno tutte riflessioni sull’isolamento? Molti cortometraggi di Singapore sono già stati caricati su YouTube e Vimeo. Se la maggior parte di essi è banale e non fa che rimuginare sullo stato delle cose e su come accogliere una “nuova realtà”, c’è un cortometraggio che è riuscito, attraverso lo stesso percorso, a esplorare un significato più profondo: The Cup di Mark Chua e Lam Li Shuen, girato al culmine del lockdown, incarna sul serio lo spirito indipendente del cinema di Singapore. 

È un risultato tanto più notevole se si tiene conto dei film precedenti realizzati dalla coppia di intrepidi registi. Cannonball e Revolution Launderette sono stati prodotti rispettivamente in Australia e in Giappone. I film sono stati realizzati artigianalmente dalla coppia di registi mentre attraversavano zone sconosciute di quei paesi, imbattendosi al volo in situazioni drammatiche e costruendo narrazioni magnificamente sgangherate. È attraverso la prospettiva di questo obiettivo dallo spirito libero che possiamo capire il loro modo di fare film, sicché le improvvise restrizioni avrebbero potuto determinare una stretta del cappio creativo. Con The Cup Chua e Lam non si sono limitati a eludere i vincoli, ma hanno addirittura sfruttato il giogo che era stato loro imposto. 

È impossibile tenere a freno l’impulso a fare cinema!
Warren Sin