Venti anni dopo aver collaborato con Tony Leung Chiu-wai e Andy Lau Tak-wah in Infernal Affairs, lo sceneggiatore Felix Chong, stavolta in veste di regista, torna a lavorare con i due superdivi nel film The Goldfinger, un dramma sulla criminalità finanziaria che costituisce una delle più grandi produzioni locali mai realizzate a Hong Kong. Leung interpreta un mago della finanza che, tra intrighi e corruzione, riesce a salire in cima alla piramide, mentre Lau è l’investigatore del nucleo anticorruzione determinato a fermarlo. Nel corso di questa lunga conversazione, il regista descrive le sue scelte creative, spiega come ha realizzato un film complesso sul mondo della finanza e parla della sua transizione dalla sceneggiatura alla regia.
— Dopo aver affrontato il tema della falsificazione del denaro in Project Gutenberg, come mai nel nuovo film ha deciso di cimentarsi nuovamente con un reato finanziario?
In realtà, i crimini finanziari sono sempre stati un tema chiave nei miei film, nel corso degli anni. Questo film non è esattamente un sequel di Project Gutenberg, perché quel film parla di cosa possono fare i diplomati delle scuole d’arte se falliscono come artisti (ride).
La genesi di The Goldfinger va cercata nei miei ricordi d’infanzia. All’epoca i miei genitori avevano molti amici che lavoravano in campo finanziario. In quel periodo Hong Kong era in pieno boom economico e, sebbene a quel tempo io non sapessi cosa stesse succedendo, percepivo che gli adulti stavano attraversando grandi cambiamenti nelle loro vite. Ad esempio, capitava che degli amici dei miei genitori si trasferissero improvvisamente dalle loro lussuose case del quartiere residenziale di Mid-Levels a un quartiere povero. Solo successivamente ho capito che a Hong Kong si erano verificati dei crolli nel mercato azionario. Mi sono interessato all’argomento: ero particolarmente coinvolto in questa vicenda, realmente accaduta, perché ho visto personalmente il modo in cui ne sono state colpite le famiglie di diversi amici strettissimi, fino a rivoluzionarne la vita, in alcuni casi. Volevo sapere perché era successo.
Ho iniziato a scrivere questa storia dopo Infernal Affairs. Il suo successo mi ha permesso di avere un certo potere contrattuale per decidere cosa fare, così ho sviluppato questo progetto insieme ad altri, incluso Project Gutenberg. E mentre ci lavoravo, ho compreso che ciò che mi attraeva non era tanto l’aspetto criminale, ma piuttosto il modo in cui si è formata la cultura di Hong Kong, o come noi hongkonghesi e la città stessa siamo diventati quello che siamo oggi. Tutto questo ha rafforzato la mia determinazione a portare a termine questo film.
Ci ho lavorato per quasi 10 anni, a intermittenza, mentre realizzavo altri progetti. Durante la post-produzione di Project Gutenberg, ho visto una pièce teatrale dal titolo Tonnochy: trattava le stesse tematiche! Lo spettacolo aveva come finanziatore Albert Yeung [il fondatore di Emperor Group] che, venuto a sapere che intendevo girare un film su quel tema, disse che avremmo dovuto parlarne. È stato allora che ho iniziato seriamente a scrivere la sceneggiatura. Quando, nel 2020, Tony Leung ha letto la stesura definitiva trovandola di suo gradimento, il film è diventato reale.
— Come ha detto prima, il film è ambientato nel periodo più prospero di Hong Kong. Tuttavia, lei ha scelto di raccontare la storia di una società che crolla proprio in quell’epoca. C’era forse un messaggio che voleva trasmettere?
Finché non ho iniziato a scrivere non sapevo esattamente cosa volevo dire. Nemmeno uno scrittore sa veramente dove vuole arrivare, all’inizio. Nei video dei “making-of”, i cineasti parlano come se avessero sempre avuto le idee ben chiare, ma nel mio caso non è mai stato così. Ogni volta parto con un’idea iniziale per poi scoprire invariabilmente qualcos’altro lungo il percorso. Se alla fine mi ritrovo con la stessa idea che avevo all’inizio, significa che non era poi una grande idea, perché vorrebbe dire che non ho scoperto nulla di nuovo strada facendo. Per me, l’idea chiave del film non è il crollo di un impero ma il concetto che quel crollo ha a che fare con la teoria economica della “mano invisibile”. Come si forma quella mano invisibile? Discutendo la sceneggiatura, Tony Leung ed io siamo rimasti entrambi scioccati da quanto sia terrificante la mano invisibile. Storicamente, la gente ha cercato di eliminarla, ma senza riuscirci. È una cosa che mi ha colpito molto.
Mi è stato chiesto perché non ho rivelato l’identità della mente suprema che tira le fila di tutto nel film. La verità è che ho scoperto chi c’era dietro a tutto nel caso realmente accaduto che ha ispirato il film, ma era come una matrioska russa: dietro quella forza invisibile ce n’era un’altra, e così via. Non sarei mai arrivato fino alla fine! Il problema è che se avessi cercato di raccontare quella storia, sarebbe stata la narrazione della storia finanziaria globale.
Per quanto riguarda il perché ho ambientato il film in quell’epoca particolare... in realtà avevo preso in considerazione la possibilità di collocare la storia ai giorni nostri. Sarebbe stata una decisione economica, perché mi avrebbe permesso di risparmiare un sacco di soldi. La gente pensa che io abbia avuto grandi disponibilità finanziarie per girare questo film, ma non è così. Però, se avessi cambiato periodo storico, si sarebbe perso il senso dell’adattamento del caso finanziario reale da cui è tratto, per cui ho deciso semplicemente di restare nell’ambientazione originale.
— Parliamo della struttura della sceneggiatura. In Project Gutenberg ci sono essenzialmente persone diverse che raccontano una medesima storia. Allo stesso modo, in gran parte The Goldfinger è strutturato intorno a personaggi che raccontano la storia del protagonista interpretato da Tony Leung. Lei è particolarmente interessato alla tematica della narrazione?
Il motivo per cui in questo film ho adottato questo approccio è che se avessi raccontato questa vicenda estremamente articolata in modo cronologico ed episodico sarebbe stato facile per me perdere il filo. A dire il vero ho lasciato fuori molti personaggi interessanti, avevo spazio solo per quelli essenziali. Circa una settimana dopo l’inizio delle riprese, Tony Leung mi disse: “È un peccato raccontare questa storia in un film. Dovrebbe essere una serie tv”. Lì ho capito che avevo messo troppa carne al fuoco. Ma siccome era impossibile andare dagli investitori e chiedere di fare una trilogia, sono andato avanti.
Avevo una domanda che mi ronzava in testa quando ho iniziato il processo creativo: come reagisce uno che viene arrestato? Quando ho scritto la scena dell’arresto, ho immaginato il personaggio in un luogo pieno di persone pronte a tradirlo. Quella è stata la scintilla creativa. Attraverso quella scena, ho trovato la struttura del film.
— Nel commento del regista, lei ha dichiarato che la sfida maggiore è stata dover portare nella storia concetti finanziari molto complessi. Le sembra di aver superato questa sfida?
Direi proprio di sì. Dopo aver finito il film, l’ho mostrato ad alcuni esperti della finanza e mi sono rivolto a loro per sapere se avessi reso bene il tutto, se il ritmo era appropriato e se il pubblico avrebbe capito. Nel film ci sono molti concetti complessi, quindi li ho semplificati riducendoli all’idea che si compra qualcosa a buon mercato per poi rivenderlo a un prezzo alto. Quindi, penso di essere riuscito a renderlo comprensibile.
Ma se lei mi chiedesse se avrei potuto renderlo più drammatico, allora avrei avuto bisogno di più tempo sullo schermo. Nella prima stesura, avevo ipotizzato tre o quattro scene per delineare il conflitto finanziario. Alla fine, ho dovuto ridurle a una scena sola.
— Ha pensato di adottare l’approccio ipertecnico di La grande scommessa?
Ho scelto intenzionalmente di restare un gradino sotto La grande scommessa. Alcuni conoscenti mi hanno confermato che nessuno ha davvero capito quel film, e dei cinefili mi hanno detto che hanno dovuto vederlo tre, quattro volte per capirlo, o che hanno avuto bisogno di amici che lo spiegassero loro. Avevo chiari i concetti perché avevo letto molti libri prima, ma io stesso l’ho trovato un po’ pesante da seguire. Ho apprezzato però anche l’arte degli autori, hanno fatto davvero del loro meglio. Il loro era un dilemma importante: quanto avrebbero dovuto raccontare alla gente?
Ecco perché ho scelto intenzionalmente di fermarmi a un livello inferiore rispetto a La grande scommessa. A guardare oggi un film come Wall Street, ci si rende conto di quanto sia tutto così semplice! Oggi chiunque scambia azioni via cellulare, si acquistano persino azioni americane! Mi chiedo se si rendano conto della responsabilità fiscale che questo comporta.
— Può dirmi quanto durava il primo montaggio?
Il premontato durava tre ore. Il secondo montaggio era di circa 140-150 minuti. Ero piuttosto soddisfatto di quella versione. Poi è intervenuto William Chang e l’ha ridotto a poco meno di due ore. Ero scioccato. Procedeva a velocità folle! Ma mi ha assicurato che era la forma giusta e mi ha affascinato l’idea che lui abbia dato al film una forma diversa. Non ha modificato la struttura, ha solo cambiato la forma. Come saprà, William è il montatore dei film di Wong Kar-wai; ora finalmente capisco perché i film di Wong sono quello che sono.
— La maggior parte dei tagli si è concentrata nella parte finale, quella delle indagini dell’ICAC [Independent Commission Against Corruption]?
Si può dire così, perché quella sezione non attirava. È strano, perché i drammi procedurali hollywoodiani molto parlati, come JFK, possono essere davvero validi. In realtà ho girato alcune scene in stile documentaristico, dal punto di vista del personaggio di Andy Lau, ma le hanno trovate troppo noiose. Le tre scene ambientate in tribunale erano più lunghe in origine: anche il giudice aveva delle battute drammatiche, ma sono state tagliate.
Successivamente, ho protestato: “Visto che successo hanno ultimamente i drammi giudiziari? E io ho dovuto tagliare quelle scene!” So che i grandi divi non sono il fulcro di quelle sequenze, con il protagonista intrappolato al banco degli imputati senza dire una parola; e tutti volevano che il film arrivasse velocemente alla fine. Mi hanno chiesto di tagliare le successive scene del tribunale ma ho ribadito che quelle scene mettono in luce l’assurdità del meccanismo, mostrano quante persone sono colluse.
—In realtà, i miei film finanziari preferiti degli ultimi anni sono La grande scommessa e Margin Call, e in quest’ultimo c’è solo un gruppo di persone che parlano in una sala riunioni.
Sì. Purtroppo, di Margin Call non ne parla mai nessuno, ma è un grandissimo film!
— Dopo il successo di The Goldfinger, se la sentirebbe di girare un film finanziario più rischioso?
Alla prima del film, la sala più grande era occupata dai più grossi magnati di Hong Kong. Erano le persone più potenti nel settore finanziario, e si sono divertiti un sacco. Un’altra sala era piena di broker e intermediari, si sono divertiti anche loro.
Ci sono due casi finanziari che gli amici mi hanno suggerito, perché sanno che sono interessato a questo tema e potrei trasformarli in film. Sono casi ancora più complessi di quello di The Goldfinger: uno riguarda le criptovalute ed è molto complicato. In quel mondo accadono eventi estremamente drammatici, ma non so se il pubblico potrebbe essere interessato o comprenderli. L’altro caso ha implicazioni politiche e diplomatiche, quindi non sono sicuro di poter toccare l’argomento, al momento. Vedremo cosa succederà.
— Parliamo della scelta degli attori. In che modo ha stabilito quale personaggio avrebbero interpretato i due protagonisti?
All’inizio non avevo in mente nessuno in particolare, perché non volevo preoccuparmene finché non avessi ottenuto i fondi necessari. Avevo solo l’impulso di scrivere la sceneggiatura. Tony Leung è un caro amico e spesso gli mostro i miei script per avere il suo parere. Quando ha letto The Goldfinger, mi ha detto che potevo contare su di lui. Nel frattempo, stavo discutendo con Andy Lau di un altro progetto e abbiamo iniziato a parlare di come fossero passati 20 anni da Infernal Affairs. È stato allora che ho avuto un’illuminazione e gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto tornare a lavorare con Tony. Non gli ho raccontato il soggetto, gli ho detto solo che questa volta, invece del cattivo avrebbe fatto la parte del buono. Ho aggiunto che entrambi avrebbero interpretato due personaggi nell’arco di vent’anni, dai 40 ai 60, ma che solo il buono sarebbe invecchiato, perché il cattivo non invecchia per niente, essendo ricco, mentre il buono non lo è. Ha accettato immediatamente.
—Per i ruoli secondari ha scelto molti giovani attori di Hong Kong. Può raccontarci qualcosa a questo proposito?
Per il casting ho fatto una ricerca ad ampio raggio e davvero capillare, perché nello script avevo moltissimi personaggi giovani. Sono stato direttore creativo degli Hong Kong Film Awards per alcuni anni, e ho avuto modo di conoscere i giovani attori con cui ho lavorato per lo spettacolo. Nel 2019 molti di loro mi hanno bloccato dopo le loro esibizioni alla cerimonia per dirmi che dopo quella serata sarebbero rimasti senza lavoro. Avevo visto quanto erano capaci e talentuosi, non capivo perché fossero senza lavoro, così ho deciso di fare il loro nome a tutti i miei amici registi. E mi sono ripromesso che, se mai avessi fatto un film che li richiedesse, avrei dato la priorità a loro. Questo è il risultato.
— Lei ha iniziato come sceneggiatore e ora ha all’attivo ben tre film da regista. Qual è stata la sfida più grande nel fare questa transizione?
A dire il vero, contando quelli co-diretti insieme ad Alan Mak, ho fatto nove film. Sono stato molto fortunato ad essere sul set nei film diretti da Andrew Lau, che continuava a sottopormi problemi da risolvere. Durante la lavorazione di Dance of a Dream, lo scenografo mi si è avvicinato e mi ha chiesto quali oggetti di scena volessi, insistendo che era stato il regista a dire che dovevo decidere io. Allora gli ho spiegato cosa succedeva in quella scena e così via, e lui ha risposto: “È tutto quello che volevo sapere”.
A seguito di questo episodio, e volendo fare un buon lavoro, ho cominciato ad analizzare ogni aspetto della produzione. Dopo un po’ di tempo, ho iniziato a farmi un’idea del funzionamento di una produzione cinematografica. Al termine del mio primo giorno sul set come regista, ho chiesto al mio assistente alla regia – che lavorava anche con la troupe di Andrew Lau – come fossi andato, e lui mi ha risposto: “Hai fatto semplicemente quello che hai sempre fatto”. Quindi, senza farmene accorgere, Andrew Lau mi aveva preparato a fare il regista.
In seguito ho aiutato i miei amici sceneggiatori a pianificare i loro passaggio dietro la macchina da presa e ho capito che molti di essi non rispettano i tempi sul set. Naturalmente sforano, ed è saltato fuori che molti sceneggiatori non sanno come guardare il piano di lavorazione del regista. Credo quindi che quel che devono imparare è il flusso di lavoro di una produzione cinematografica. Ecco perché sono molto grato ad Andrew Lau di avermi insegnato, quando non stavo nemmeno cercando di imparare!
— Cosa vorrebbe comunicare al pubblico straniero con questo film?
Non ho mai pensato di comunicare qualcosa al pubblico. Posso solo dire che, da cineasta, già soltanto il fatto di raccontare la storia assorbe tutte le mie energie. Ovviamente, siamo umani. Abbiamo opinioni. Ecco perché facciamo film. Ma credo che il film riveli naturalmente ciò che voglio dire.
Mettiamola così: voglio che le persone vedano che cos’è Hong Kong. Al di là del luogo fisico in sé, cos’è Hong Kong?