Fatto più unico che raro, il regista hongkonghese Herman Yau è presente al FEFF di quest’anno con ben tre film: Raid on the Lethal Zone, Moscow Mission e la prima mondiale di Customs Frontline. Questo tris di titoli è la dimostrazione che Yau – molto apprezzato nel settore per la sua efficienza sul set e per la sua inesauribile energia – è il più recente e prolifico maestro del film d’azione hongkonghese. Yau, indossando una delle sue tipiche magliette rockettare (vista la sua collezione di magliette di band musicali, dice, fargli un regalo è facilissimo), ci ha raccontato come sono state realizzate le grandi sequenze d’azione dei tre film, illustrandoci perché non gli dispiaccia essere chiamato “artigiano” invece di artista, e spiegandoci l’importanza che ha l’esperienza pratica sul set, quando si realizza un blockbuster a grosso budget.
— Com’è nata l’idea di realizzare un film sugli agenti doganali?
È stato il produttore della società, Jason, a proporre di fare un film sui doganieri. L’idea era venuta fuori per la prima volta già una dozzina di anni fa, avevamo iniziato a elaborare un soggetto ma poi ci siamo fermati. Il concetto alla base di questa versione si è sviluppato intorno al 2018. Tra il 2017 e il 2018 ci sono stati diversi film incentrati su personaggi in divisa, dai vigili del fuoco ai poliziotti; per fare qualcosa di diverso abbiamo pensato ai doganieri.
Di solito, nei film d’azione ci sono sempre banditi e poliziotti. Ma c’è stato un periodo in cui il pubblico di Hong Kong non amava particolarmente vedere uniformi della polizia sul grande schermo. Perciò, quali altre uniformi potevamo usare? Ecco com’è nata l’idea degli agenti doganali.
— In ciascuno dei film che presenta quest’anno al FEFF c’è una sequenza d’azione grandiosa. Può dirci qualcosa sulla progettazione di queste sequenze?
Quando mi hanno contattato dalla iQIYI per girare Raid on the Lethal Zone, volevano che facessi un film sulla anti-narcotici. Avevano già la storia pronta quando me l’hanno proposto, alla fine del 2019. A dire il vero, ad attirarmi era soprattutto l’alluvione. Tra il 2017 e il 2019, c’erano troppi film polizieschi sulla caccia ai narcotrafficanti; ogni società di produzione in Cina ne aveva almeno uno in listino. Se non l’avessi realizzato per la società A, lo avrei potuto fare per la compagnia B o la C, e così via, e ognuna di esse avrebbe avuto un budget di tutto rispetto.
Così, nel 2019, quando iQIYI mi ha proposto il soggetto, quello che mi ha colpito è stata l’alluvione. Era qualcosa di nuovo per me, non avevo mai ripreso un’inondazione prima di allora. Quel che più vi si avvicinava era una pioggia torrenziale e uno smottamento del terreno. Per documentarmi ho guardato i filmati dei notiziari sugli tsunami e sugli allagamenti, dopodiché ho dovuto pensare a come inserire l’azione in quell’ambiente inondato d’acqua.
— Quanto c’era di computer grafica e quanto di reale, in tutto questo?
Abbiamo ricostruito la strada, ma era solo un incrocio. Se si guarda attentamente, si vede che abbiamo semplicemente replicato la stessa location. Naturalmente abbiamo cambiato i colori dei muri, per farli apparire diversi da una ripresa all’altra. Il set era lungo circa 100 metri, e lo abbiamo inondato d’acqua. Cerco sempre di mantenere alcuni elementi reali, a meno che non esistano proprio. Quindi c’era l’acqua, e io ne ho aggiunta altra con la computer grafica.
Quando è un film in lingua cinese a utilizzare la CG, il pubblico pensa automaticamente che sia di qualità inferiore, e quindi che sembri falso. In postproduzione devo prendere molte decisioni, per cui cerco di semplificare il mio processo decisionale utilizzando il maggior numero possibile di elementi reali, per poi potenziarli con la CG. Se il pubblico li considera ancora falsi, cosa posso farci? È sempre meglio girare il più possibile con la macchina da presa.
Per quel che ne so, quando il pubblico si aspetta che una data cosa sembri reale, bisogna fare ancora meglio. Pensi ai film della Troma: sono rozzi, ma gli spettatori li adorano perché sembrano così low-tech. Noi invece vogliamo che le scene appaiano convincenti agli occhi del pubblico, quindi facciamo del nostro meglio perché tutto sembri reale.
— Guardando Moscow Mission, sono rimasto sbalordito da quello che può realizzare una troupe di Hong Kong.
Anche per quello avevamo la storia già pronta. Sono venuti da me con la sceneggiatura completa, ma lo script era lunghissimo, sarebbe durato quattro ore o più. La maggior parte delle scene d’azione c’erano già, io ho aggiunto l’inseguimento in auto. In origine doveva trattarsi di una breve scena di un filmato di videosorveglianza, ma io l’ho estesa: nel copione c’era un vuoto in quella sezione, senza nessuna azione, allora ho aggiunto l’inseguimento.
Le altre scene culminanti c’erano già nello script, ma per il finale abbiamo dovuto discuterne: si trattava sempre di riportare i criminali in Cina via treno, ma in origine lo scontro finale era ambientato su un viadotto. Ora, io appartengo una tradizione realista. Se c’è un cineasta più anziano a cui mi ispiro, è Michael Mak. Quando gli presentavamo delle idee, lui spesso le rifiutava. Ma se dicevamo, “Oggi per strada ho visto questo e quello”, era contentissimo. Era molto bravo a individuare le bugie. Voleva autenticità.
Ad ogni modo, il finale doveva essere ambientato in Siberia, ma lì non ci sono viadotti di quell’altezza: per risultare interessante avrebbe dovuto trovarsi a centinaia di metri da terra, ma sarebbe stato impossibile in quel luogo. Ho detto agli investitori che sicuramente il popolo di Internet avrebbe trovato da ridire su questa soluzione e il film sarebbe stato criticato per questo. Avevamo anche ipotizzato di girare un combattimento sul tetto del treno, ma è stato già fatto milioni di volte.
Prima di girare, ho fatto molte ricerche sulla linea ferroviaria K3/K4 ed è stato così che mi sono accorto dello scambio ferroviario lungo il percorso. Sono un cinefilo, ma non ho mai visto nulla di simile in un film. Ho trovato alcuni video su un binario di raccordo, e l’ho trovato affascinante. Quel commutatore ferroviario non è esclusivo del confine tra Cina e Russia, c’è in molti altri posti. È raro però che sollevi l’intero vagone. Quindi, ho deciso di ambientare il finale del film in quel luogo. In realtà ho dovuto lottare per quella scena, perché pensavano che il raccordo non fosse abbastanza interessante visivamente.
— Per Customs Frontline ha lavorato con la sua sceneggiatrice abituale, Erica Li. È nata prima l’azione o la storia?
Anche in questo caso la storia c’era già. Era prevista una scena con un furto di armi, su quella abbiamo costruito l’azione.Per quanto riguarda il finale, c’era l’inseguimento di una nave portacontainer, così abbiamo pensato a qualcosa che potesse sembrare valido e molto locale. A dire il vero, nella realtà l’inseguimento non sarebbe mai potuto arrivare al Victoria Harbour, così abbiamo impiegato tutti i mezzi possibili per far arrivare nel Victoria Harbour quella nave. Se fossimo andati nello stretto vicino a Tsing Yi, lo sfondo sarebbe stato poco interessante.— Quale dei tre film è stato il più difficile da girare?
Nessuno dei tre è stato particolarmente complesso, ma
Raid to the Lethal Zone è stato il più impegnativo dal punto di vista fisico. Ogni giorno l’intera troupe era bagnata fradicia. Le nostre scarpe erano ricoperte da così tanto fango che l’hotel non ci faceva entrare. La sera avevamo sempre un autocarro cisterna fuori dal set per spruzzare via il fango dagli pneumatici. Dovevamo ripulirci prima di tornare in albergo. Quando si girano primi piani non si può concentrare l’acqua in un solo punto, quindi l’acqua era ovunque e, malgrado indossassimo gli impermeabili, eravamo tutti zuppi. È stato molto duro per il cast e per la troupe: tutti scivolavano per terra, soprattutto quelli che trasportavano attrezzature, ma per fortuna nessuno si è fatto male seriamente.
— Lei è nel mondo del cinema da decenni. Ha lavorato in più di un centinaio di film…
Contando solo la regia sono circa 90, ma sicuramente più di 100 se si considerano anche i film per i quali ho curato la fotografia.
— In che modo la sua vasta esperienza l’ha aiutata a mantenere il controllo sul set nelle produzioni su larga scala?
È tutto frutto dell’esperienza. Esperienza e formazione nella gestione del set, è tutto un insieme. La scala è diversa – devo dirigere 100 comparse invece di 10 – ma i metodi di base rimangono gli stessi: per prima cosa, bisogna saper gestire i tempi; in secondo luogo, ci vogliono capacità organizzative; terzo, è necessario mantenere la parola data, il che significa che bisogna assumersi la responsabilità di ciò che viene detto alla troupe, evitando ad esempio di chiedere qualcosa e poi, presi da improvvisa amnesia, cambiare idea. Inoltre, meglio non essere troppo spericolati. La creazione di immagini è una questione di procedura, e io ho una certa esperienza in questo campo.
— C’è ancora qualcosa che la turba oggigiorno? O è sempre piuttosto sicuro di quello che fa?
Il mio unico timore è che un film, una volta finito, non sia buono. Se parliamo della creazione di specifiche inquadrature, se riesco a immaginarle posso anche girarle. Il problema è il risultato finale dopo aver messo insieme 1000 riprese. Girare non è complicato, quel che è difficile è elaborare una ripresa creativa. L’esecuzione non è così complessa, specialmente con la tecnologia odierna, e posso dire con assoluta certezza che le troupe cinematografiche di Hong Kong sono le migliori al mondo.
— C’è chi dice che un regista non abbia tempo di curarsi della qualità artistica sul set perché è tutta una catena infinita di problemi da risolvere. È così anche per lei?
Per un regista come me, sì. Ci sono molti autori più artistici che non sono così, ma io sono un regista artigiano. Non trovo che ciò abbia una connotazione negativa. Mi va bene così, anche gli artigiani sono molto professionali. La sedia del “creativo” a volte può essere scomoda, mentre la mia sedia è molto confortevole. Ecco cosa significa essere un artigiano. Non ho inventato io la sedia, ma posso costruirne una fatta bene.
— Qual è la qualità essenziale per la creazione di una buona scena d’azione?
Ovviamente, per prima cosa ci vogliono le idee; ma nessuno sa veramente cosa vuole vedere il pubblico. E del pubblico fanno parte anche gli investitori, i critici cinematografici, le masse e altri esponenti del settore. Se guardo i film di altri registi, mi faccio un’idea. Ma quando guardo i miei film, non posso prevedere come si sentiranno gli spettatori. Ad esempio, ci sono alcune mie opere che non pensavo fossero davvero riuscite, ma hanno avuto un ottimo passaparola; o film che non mi aspettavo avrebbero avuto successo, e invece lo hanno avuto.
Ci penso sempre, ma guardando indietro, ancora non capisco cosa c’era di sbagliato in
The White Storm 3. Probabilmente il film non piace neanche a lei. So che la storia è un po’ antiquata.
D’altra parte, anche se gli hongkonghesi non amano molto i film della Cina continentale,
Moscow Mission ha avuto un passaparola piuttosto buono. E anche il pubblico taiwanese l’ha apprezzato. Se lo si vede come un filmone di propaganda, allora ovviamente è difficile che piaccia. Ma come film d’azione commerciale, le recensioni che ho letto erano piuttosto positive! Non riesco a spiegarmelo.
La storia di
Raid on the Lethal Zone è piuttosto scarna, ma la gente ne era entusiasta. L’investitore ci credeva molto, ma la promozione è stata totalmente sbagliata e hanno ritirato il film dopo l’uscita in sala, ma non perché avessero paura: semplicemente, pensavano che non avesse incassato abbastanza nelle date selezionate! Così gli investitori lo hanno ritirato, sperando in risultati migliori al botteghino, e alla fine lo hanno trasformato in un flop. Comunque, i soldi sono i loro, quindi non posso lamentarmi, ma è uno spreco del nostro duro lavoro.
— Il suo punto di forza è che riesce a trovare spazio di manovra all’interno dei vincoli di genere. Come c’è riuscito in questi tre film?
Con la positività. Se un metodo non funziona, bisogna adottare un approccio più sottile. Se non posso essere esplicito su un argomento, allora sarò implicito. Libri e film proibiti ce ne sono sempre stati, ma nonostante le limitazioni l’uomo è sempre stato in grado di creare. E le opere possono essere tramandate di generazione in generazione. Cerco di pensare in questo modo. Prima si finisce il film, e solo dopo ci si preoccupa del resto. Se il film non si riesce nemmeno a realizzarlo, rimarranno solo delle immagini nella testa di chi l’ha pensato.
— Il suo coreografo d’azione in Customs Frontline, Nicholas Tse, è anche l’interprete principale. Com’è stato collaborare con lui?
È stata una collaborazione come tutte le altre. Era la prima volta per lui, e io sono più anziano, quindi ci siamo trovati bene. Mi proponeva le sue idee e poi ci lavoravamo insieme. Non aveva nessun ego derivante dall’essere un grande divo. Inoltre, avevo già lavorato con la maggior parte dei componenti del suo team. Dopotutto, sono in questo settore da molto tempo. Ho realizzato 20-30 film con quei ragazzi, non c’è stato nessun problema. A dire il vero, ho pensato che Tse fosse un po’ troppo riservato, avrebbe potuto essere più schietto. Recitare e lavorare dietro le quinte comporta mentalità differenti. Non ne ho parlato approfonditamente con Nic, ma penso che lui si sia divertito a farlo.
— Nei suoi film d’azione ha fatto saltare per aria tante zone di Hong Kong. C’è qualche sequenza d’azione nei suoi sogni che vorrebbe provare a realizzare?
No, perché viene prima la storia. Una sequenza d’azione dovrebbe scaturire dalla storia. Ad esempio, in
Shock Wave 2, non avevo pensato di far esplodere il ponte Tsing Ma prima di immaginarmi in quali circostanze. Non riesco a creare in quell’ordine. Io arrivo a un punto della storia che richiede un’azione, ed escogito l’azione. Credo che la maggior parte della gente pensi così. Se uno presentasse una sequenza d’azione ai finanziatori prima di introdurre la storia, quel film non verrebbe mai realizzato. Bisogna raccontare una storia, poi dire che alla fine il ponte esploderà; è così che si può ottenere l’investimento. Bisogna prima raccontare la storia. Altrimenti, non si riescono ad attrarre nemmeno gli attori.
— Il film d’azione rappresenta da sempre il genere cinematografico hongkonghese più popolare all’estero. Che ne pensa dello stato attuale del cinema d’azione?
Non va più così alla grande come prima, ovviamente, perché ora il pubblico vede più cose. E in qualche modo il genere è stato “hollywoodizzato”. In passato, il film d’azione aveva un sapore inequivocabilmente hongkonghese. Un vero film di arti marziali è tipico di Hong Kong perché all’epoca non esistevano da nessun’altra parte. Jackie Chan, per esempio, ha realizzato film d’azione in cui rischiava la vita: film audaci, coraggiosi. Questo è il motivo per cui i nostri film d’azione sono così apprezzati all’estero.
— Lei gira tre, quattro film all’anno. Come fa ad avere tutta questa energia?
Non lo so. Forse è perché non sono molto esigente come regista o qualcosa del genere! Onestamente, il carico di lavoro non è così impossibile. So che il lavoro creativo è diverso, ma ci sono tante persone comuni che vanno a lavorare cinque giorni alla settimana. Se io faccio tre film all’anno, e ogni film richiede due mesi di lavorazione, beh sono solo sei mesi di riprese. Certo, c’è la post-produzione, ma si può fare. Ci sono giorni stancanti, ma ci si stanca anche andando in vacanza. Non è impossibile.
L’intervista è stata rivista per ragioni di lunghezza e di chiarezza.