Si intitolava Kitano Beat Takeshi il volume collettaneo a cura di Michele Fadda e Rinaldo Censi per Stefano Sorbini Editore che nel 1998 accompagnava la personale omonima dedicata al regista giapponese, patrocinata da Lab80 Film, F.I.C. – Federazione Italiana Cineforum, Bergamo Film Meeting e Fondazione Alasca, e presentata in numerose città italiane, tra cui Milano, Bologna, Venezia e Udine. Tutto – retrospettiva e libro – nato a Parma, grazie al cineclub Black Maria, presieduto da Roberta Parizzi e del quale anch’io facevo parte. Si trattava del primo testo monografico europeo su Takeshi Kitano, e molte erano le firme prestigiose (tra le altre, Enrico Ghezzi, Maria Roberta Novielli e Aaron Gerow). Segnava un precedente. Ed entusiasmante, per giunta: perché erano anni cinefili belli e importanti, costruiti e consolidati attraverso la ricerca senza requie, la scoperta, le epifanie ininterrotte. Sembra ormai preistoria, poco meno di cinque lustri.
Oggi è cambiato tutto, alla radice. Sono cambiati il mercato, i film, gli spettatori; è cambiata la cinefilia; è cambiato, profondamente, il nostro sguardo. Kitano Beat Takeshi prendeva origine e forma dall’ebbrezza per la presentazione a Cannes di Sonatine (nella sezione Un Certain Regard) e in particolare per il Leone d’Oro a Hana-bi – Fiori di fuoco. Ma anche dall’euforia del commercio “clandestino” di VHS: grazie alle copie di copie, con sottotitoli sbiaditi e ai limiti dell’intelligibilità, il cinefilo curioso apriva gli occhi sugli esordi di Kitano, Violent Cop e Boiling Point. Ricordare la nostra “prima volta” con Il silenzio sul mare e Getting Any?, visionati in condizioni misere tra video opachi e traduzioni a fondo schermo sfavillanti, è un po’ come risalire all’alba dell’amore per le immagini. Quantomeno per quelle immagini che allora ci parevano originali, nuove, così diverse e così lontane.
Il seguito che il cinema di Takeshi Kitano è riuscito a conquistare è difficile da capire se non lo si è vissuto “in diretta”, live. Ricordo benissimo l’applauso di puro giubilo alla comparsa del brand “Office Kitano” all’inizio della proiezione veneziana per la stampa di Zatoichi. Kitano era già un culto, una religione, con tanto di devoti, liturgie e fanatismo. Talvolta era solo questione – appunto – di applausi: se ne è accorto perfino lui, Kitano stesso, come ha rilevato in un suo scritto facendo un confronto valoriale tra l’applauso ricevuto a Cannes per Sonatine e quello di Venezia per Hana-bi. Una giornalista francese gli ha confidato che i suoi film avrebbero creato i “kitanisti”, cioè dei veri osservanti, degli intemerati fedeli. Il culto tributato a certo cinema di Hong Kong e ad alcuni suoi autori è giunto pressoché contemporaneamente.
Negli anni ’90 Takeshi Kitano è diventato uno spirito guida, e ha vestito questi panni a lungo. Si chiama Nascita di un guru il suo romanzo del 2005 (non autobiografico, ma il titolo è emblematico e significativo). E quello del guru è stato un ruolo che Kitano ha interpretato per molto tempo. Probabilmente non troppo comodamente, e senza dubbio in modo inquieto. Tuttavia è evidente che almeno per dieci anni, dal 1993 fino al 2005 circa, la posizione del regista sulla scena internazionale ha assunto uno spessore mediatico e rituale decisivo per la sua carriera e per il mercato cinematografico. Una bolla. E perfino la critica, anche la più severa, ne respirava l’ossigeno. Perché il cinema di Takeshi Kitano, tra un’offerta d’essai ormai alla canna del gas e uno scenario hollywoodiano a encefalogramma piatto, appariva proprio così, con le qualità organolettiche dell’ossigeno rigenerante. Abdicavano tutti, i più cinici, i più diffidenti; tutti si abbeveravano.
Con il Takeshi Kitano di quel periodo d’oro non è mai sbocciato il sospetto di esotismo festivaliero (che ha invece attecchito, giusto per portare un altro esempio dall’Estremo Oriente, all’indomani del clamore occidentale suscitato dai riconoscimenti, dal successo e dall’ecumenismo critico elargiti con generosità alle prime opere di Zhang Yimou). Tutti siamo stati kitanisti, tutti abbiamo creduto appassionatamente nel kitanesimo, e ne andiamo fieri. Quei film ci hanno “afferrati” e “scossi”, anche quando sembravano accarezzarci con i sentimenti più semplici e giusti (Il silenzio sul mare, Kids Return, L’estate di Kikujiro). Per trovare un equivalente asiatico altrettanto decisivo per l’immaginario cinematografico, potremmo ricorrere allo shock provocato dalla proiezione di L’isola (2000) di Kim Ki-duk alla Mostra di Venezia.
Anche il regista coreano ha incontrato poi una venerazione travolgente, che però non gli ha fatto benissimo, lusingandolo e infine isolandolo soprattutto da se stesso. Kitano al contrario l’ha cavalcata, la sua affermazione, sapendola addirittura elaborare, articolare, sbriciolare, trasformare e sfruttare con la cosiddetta “Trilogia del suicidio artistico” (Takeshis’, Glory to the Filmmaker! e Achille e la tartaruga), che sul cinema kitaniano e anche sui kitanisti e sul kitanesimo si è data quale lapide sepolcrale. Infatti Outrage e Outrage Beyond hanno svolto la funzione non soltanto di rilancio ma quasi di ricapitolazione. E di resurrezione. Come a dire: morto (un) Kitano, se ne fa un altro. Ma sempre uguale, perché Takeshi Kitano è un numero primo. Indivisibile.