Il protagonista: James Shigeta

The Odd Couples
Conoscevo James Shigeta ben prima di incontrarlo. Era il playboy moderno che amoreggia con Nancy Kwan in Fior di loto, la spalla di Elvis Presley in Paradiso hawaiano e, cosa importante per me, il detective della polizia di Los Angeles Joe Kojaku nel pionieristico film di Sam Fuller Il kimono scarlatto

Nato alle Hawaii, Shigeta intraprese la sua carriera nello show business dopo aver ottenuto l’approvazione del pubblico in un programma televisivo, il Ted Mack Amateur Hour. Entrò nel circuito dei locali notturni come interprete di commedie musicali e come cantante, ma il suo inizio promettente fu interrotto dal suo arruolamento nell’esercito degli Stati Uniti. Combatté in Giappone e, dopo essere stato congedato, entrò nella divisione cinematografica della Toho, a Tokyo, dove lavorò per circa 18 mesi (imparando il giapponese nel frattempo). 

Una volta rientrato negli Stati Uniti, Shigeta fece da coprotagonista a Shirley MacLaine nel varietà musicale Holiday in Japan, a Las Vegas. Quel lavoro lo condusse a Hollywood in un momento nel quale alcuni talenti asiatici americani si stavano lentamente inserendo nella corrente mainstream, in particolare a Broadway e alla televisione. Era l’epoca di giapponesi di importazione come Shirley Yamaguchi (La sposa di guerra giapponese, 1952), Umeki Miyoshi (prima attrice asiatica americana a vincere l’Oscar, per Sayonara, nel 1957), Nobu McCarthy (Il ponticello sul fiume dei guai di Frank Tashlin, 1958), e del ritorno di Sessue Hayakawa (Il ponte sul fiume Kwai) e di Anna May Wong (nella serie televisiva The Gallery of Madame Liu Tsong, 1951). Shigeta però si distingueva per il genere (era praticamente l’unico attore maschio di questo gruppo), per la sua giovinezza, il suo aspetto da divo, e la versatilità (un esempio è la sua interpretazione di un cowboy cinese nel film di James Clavell I draghi del West, del 1960). 

Incontrai Shigeta mentre lavoravo come produttore a Hollywood negli anni Novanta. Stavamo facendo il cast per un film e c’era stata la chiamata di attori maschi asiatici di età matura per il ruolo di un boss della mafia. Il nostro direttore del casting aveva per la sessione una rosa di 40 candidati. Durante una pausa di quella lunga giornata, mi aggiravo fuori dalla sala audizioni, nella sala d’attesa. C’erano all’incirca altri 25 candidati per l’audizione seduti sui divani, appoggiati alle pareti, appollaiati sulle sedie, e tutti che studiavano le loro parti (estratti della sceneggiatura per l’audizione). In mezzo a tutto questo c’era un gentiluomo in abito scuro, camicia bianca (si era vestito, come molti degli altri aspiranti, in modo da avere l’aspetto giusto per la parte), che si protendeva in avanti su una sedia scomoda leggendo le sue battute. Fui immediatamente colpito dal suo aspetto slanciato ed elegante, oltre che dalla sua pettinatura, e rimasi a bocca aperta quando mi resi conto che si trattava di James Shigeta. Uno dei più importanti divi asiatici americani che si presentava a un’audizione? Ero imbarazzato. Quando ero ancora uno studente di storia del cinema asiatico americano, lo consideravo una leggenda e in quella circostanza non fui in grado di farmi coraggio e andare a salutarlo. Sparii di nuovo nella sala in cui si svolgevano le audizioni, dove cercai di mettermi a posto la coscienza chiedendo a un assistente di portargli una sedia più comoda. Quel giorno non prendemmo Jimmy (come in seguito cominciai a chiamarlo), ma durante l’audizione riuscii a dirgli quanto avevo ammirato la sua interpretazione ne Il kimono scarlatto. Sorrise e rispose che era sorpreso che qualcuno se ne ricordasse. 

Alcuni anni più tardi, nel 2001, curai un’importante retrospettiva sul cinema asiatico americano per il festival di Locarno e Jimmy Shigeta era in cima alla mia lista degli ospiti, proprio come parecchi dei suoi film. Attraverso una serie di fortunate coincidenze, ero anche riuscito a rintracciare il regista di Ponte verso il sole, Étienne Périer, che viveva a Parigi. Per me fu un successo personale riunire il divo e il regista per la prima volta da quando avevano realizzato il film insieme quarant’anni prima. 

Nella storia del cinema americano mainstream, il posto di Jimmy è stato spesso trascurato, come se lui fosse stato solo un personaggio marginale (come del resto molti asiatici americani del cinema hollywoodiano). Dovremmo però ricordare che, al pari di Sessue Hayakawa, che fu altrettanto importante di Rodolfo Valentino ai suoi tempi, Jimmy fu il più grande divo asiatico americano dello studio system di Hollywood alla fine degli anni Cinquanta e in quell’epoca godette di una certa popolarità. Esistono buoni motivi per vederlo come la versione asiatico-americana di Rock Hudson: il suo modo di fare tranquillo, la sua garbata determinazione e la sua vita molto privata, che si rispecchiano anche nei principali ruoli da lui interpretati. Nel bene o nel male, Jimmy era un prodotto dello studio system hollywoodiano e avrebbe potuto raggiungere grandi vette; ma quando quell’epoca si concluse, la sua carriera si ridusse a parti da caratterista, ruoli televisivi ripetitivi e da comparsa; la vita di un attore a cottimo, insomma. Eppure, durante tutto questo percorso Jimmy mantenne la sua dignità e non manifestò mai alcuna amarezza, anzi, conferì una certa autorità e bravura  a quei ruoli minori; rimane memorabile, ad esempio, come capo della Nakatomi Corporation in Die Hard – Trappola di cristallo. È ancora una fonte di ispirazione e, sebbene sia apparso solo come una meteora per le generazioni successive, la sua statura artistica rimane intatta e questa “riscoperta” occasionale gli è dovuta. Ecco cos’è la longevità!

– Com’è arrivato a Il kimono scarlatto (1959)? È stato il suo film d’esordio.

Il mio agente disse che un famoso produttore, un regista che si chiamava Sam Fuller, stava facendo il casting per un film. Non so esattamente come andarono le cose. Lo incontrai e lui disse qualcosa del tipo “Voglio usare dei volti giovani e sconosciuti”. Non fu una vera e propria audizione, assomigliava in qualche modo a un  set. C’erano Glenn Corbett e Victoria Shaw di Incantesimo e io pensai, “Oh mio Dio, mi piacerebbe moltissimo fare questo film”. Abbiamo avuto momenti di ilarità a causa delle pagliacciate di Fuller. Il primo giorno delle riprese, nessuno mi aveva avvertito, mi aspettavo che lui dicesse “Azione!”. E di colpo, invece: “Bang!” Non si era mica suicidato qualcuno? Naturalmente tutti furono presi dall’isteria. Era il modo di dirigere di Fuller, sa. Aveva un’arma da fuoco. Non so se Victoria lo sapesse, ma per Glenn e me era la prima esperienza. 


– Com’era come regista?

Bravissimo, a dire il vero... aveva un modo tutto suo. Se voleva girare una ripresa dopo l’altra, lo poteva fare. Nessuno lo disturbava. Probabilmente avevamo tutti paura che ci sparasse! 


– Quando lesse la sceneggiatura, rimase sorpreso dal suo soggetto interrazziale? 

Beh, non dimentichi che vengo dalle Hawaii. Forse non ero sorpreso quanto qualcuno di qui [il continente statunitense]. E poi mi piaceva il modo in cui arrivava a quel punto. Riconosco di essere stato sorpreso ma non fu uno shock così terribile. Se mi guardo indietro, immagino che il film fosse molto in anticipo sui tempi, con il rapporto tra una persona bianca e un uomo asiatico e la competizione tra i due per l’amore di Victoria Shaw. È piuttosto intrigante, sa. C’è stato un vero Joe Tanaka [il personaggio che Shigeta interpreta nel film], un investigatore del dipartimento di polizia di Los Angeles. E immagino che Fuller lo avesse incontrato e poi avesse modellato il personaggio del film a partire da quello reale. 


– Ha incontrato Joe Tanaka?

No. Era un uomo che a quanto pare tutti ammiravano, però. 


– Lei ha conferito al personaggio una certa dignità. Lo ha fatto in modo consapevole?

Ne parlai con Sam, il quale affermò che Joe era proprio così: “un tipo tosto, ma anche sensibile. Ama il suo lavoro, ama la gente”. E disse anche: “Mettici dentro qualsiasi cosa tu senta”. 


– Com’è nato Ponte verso il sole?  

Avevo letto sulle riviste che il libro sarebbe stato pubblicato; lo avevo già letto prima del film e me ne ero semplicemente innamorato. Era stata contattata Shirley MacLaine e io parlai del libro con lei. Fu onesta e disse che in quella fase della sua carriera aveva bisogno di persone importanti alle quali appoggiarsi. Stava aspettando Frank Sinatra. Disse: “Saresti molto carino, ma comunque non so cosa ne pensino gli studios”. A dire il vero, avevo abbandonato completamente l’idea di essere in grado di farlo. Ad ogni modo, un po’ di tempo dopo il mio agente disse che quel regista francese, Étienne Périer, voleva farmi un provino. “Per quale film?” dissi, e lui rispose, “Ponte”. “Oddio!” (ride). Così, dal nulla. Feci il provino, gli piacqui, mi presero e lo facemmo. Incontrai la sua vedova, Gwen Terasaki, che all’epoca era ancora viva e che mi disse: “Credo che lei sia molto bravo”. È stata una cosa gentile.


– Com’è stata l’esperienza di girarlo? 

È stato il più meraviglioso film in location che io abbia mai interpretato! Washington DC, Kyoto e gli interni a Parigi. Le location dei sogni. È una storia vera, cosa che io amo, e il produttore e il regista furono davvero meravigliosi. I francesi hanno un tocco per quel genere di film, per il bianco e nero. Credo che gli americani avrebbero realizzato qualcosa di edulcorato. Realizzare il film a colori avrebbe eliminato la durezza e il realismo dell’epoca. La mia scena preferita in tutto il film non mi comprendeva. Era Carroll Baker che aveva insistito di tornare in Giappone con il marito diplomatico. Lei è su un treno e vede tutti questi prigionieri americani che lavorano sulla ferrovia. Accidenti, quella scena mi ha lacerato. Quelle immagini. Sorprendenti. 


– Nel film invecchia molto. È difficile da fare? 

Sa, quando si interpreta una storia vera, per una qualche ragione non è necessario cercare di fare nulla. Ha aiutato anche il fatto che sia stato girato più o meno in sequenza. Credo che se fosse stata una storia fittizia e lo sviluppo fino a quell’età non fosse stato reale, sarebbe stato tutto più difficile, Ho davvero vissuto attraverso quell’uomo e le sue attività. 


– L’aspetto interrazziale era già controverso o era una novità all’epoca? 

Stavamo sempre tornando a una storia vera, una storia veramente accaduta. Ecco tutto. Non si devono trovare pretesti, non si chiede scusa. Non c’era alcuna autoconsapevolezza riguardo al film. Credo sempre che se fosse stato reso finzionale sarebbe stato qualcosa di diverso.  


– Com’era lavorare a Hollywood a quell’epoca, tra la fine degli anni Cinquanta e primi anni Sessanta? Era un attore a contratto?

Sì, ma non mi pagavano un granché! Per alcuni mesi rimasi alla Metro (Goldwyn Mayer), con Joe Pasternak, facendo tutti i musical e varie altre cose. Fu un periodo divertente. Gran parte delle persone che vi lavoravano amavano l’industria del cinema ed erano cineasti in senso stretto. Era ben organizzato, e facevano tutta la pubblicità per te. In quel senso, ero fortunato, a confronto con i giovani di oggi che iniziano da zero. Ci assegnavano delle persone che facevano pubbliche relazioni, mentre ora le cose mi paiono piuttosto caotiche. Come lei sa, gran parte degli studi cinematografici sono di proprietà di multinazionali o cose simili. L’ambiente e l’atmosfera sono nel complesso completamente diversi. Si tratta solo di affari, adesso. 

Estratto da un’intervista originale pubblicata dal Festival di Locarno in Out of the Shadows: Asians in American Cinema, a cura di Roger Garcia (Edizioni Olivares/Cahiers du Cinéma, 2001). Ristampata per gentile concessione del Locarno Film Festival, grazie a Giona A. Nazzaro.
Roger Garcia