La vita dopo la morte: una conversazione su The Last Dance

A Hong Kong c’era enorme attesa per The Last Dance, soprattutto perché riuniva, dopo più di 30 anni, due leggende della commedia, Michael Hui e Dayo Wong. Nessuno si aspettava però che il film diventasse un successo mastodontico, capace di infrangere la maggior parte dei record di botteghino per un film di Hong Kong e di ottenere ben 18 candidature agli Hong Kong Film Awards. In vista dell’attesissima uscita della versione estesa di 139 minuti, lo sceneggiatore e regista Anselm Chan ci ha raccontato perché, attraverso il film, ha voluto fare a pezzi le credenze tradizionali e come ha scelto i tre protagonisti. Ci ha parlato delle critiche ricevute per il suo pessimismo e del processo di creazione del nuovo montaggio esteso.

— Per gli abitanti di Hong Kong, “rompere le porte dell’inferno” è un rito funebre molto diffuso. Secondo lei, perché è così popolare?



Rompere le porte dell’inferno” è un rito taoista. Tuttavia, a Hong Kong i rituali taoisti si sono intrecciati con le religioni popolari. Di conseguenza, la maggior parte dei taoisti di Hong Kong non segue il taoismo tradizionale, ma piuttosto diverse forme di religiosità popolare. Per questo motivo, la versione hongkonghese di rompere le porte dell’inferno include elementi propri di questo folklore religioso, come il fatto di bruciare offerte di carta.
Hong Kong è un luogo molto speciale per l’incredibile varietà di confessioni diverse. Qui è possibile praticare qualsiasi tipo di rito religioso. Ad ogni modo, la maggior parte degli hongkonghesi non ha una fede particolarmente rigida. Ci sono ovviamente persone devote a uno specifico credo religioso, ma chi non aderisce a una fede in particolare considera “rompere le porte dell’inferno” il rituale funebre per eccellenza. Ecco perché è così diffuso a Hong Kong.



— Le sue prime due esperienze dietro la macchina da presa e le sue sceneggiature erano commedie. Come mai ha deciso di cimentarsi in un dramma serio sul tema della morte?



Perché ho sempre pensato di essere più bravo a scrivere drammi. Non credo di essere particolarmente portato per la commedia. Da giovane però adoravo la comicità e ho sempre pensato di avere un buon senso dell’umorismo. Nel 2010, mentre lavoravo come autore televisivo a Pechino, conobbi il regista Vincent Kok. Lui ha colto il mio lato comico e mi ha invitato a collaborare con lui alle sue commedie per il Capodanno Lunare. Quando ho deciso di cimentarmi con la regia, nel 2016, in realtà ho scritto un thriller sull’ipnosi. Ma nessuno ha voluto finanziarlo, perché qualunque attore o produttore vedesse il mio curriculum mi chiedeva come mai uno sceneggiatore di commedie avesse scritto un thriller. Alla fine, il progetto non è mai stato realizzato.

La prima casa di produzione con cui ho firmato un contratto è stata la Universe. Una sera, durante una cena, il capo mi disse: “A volte un regista ha solo bisogno di un biglietto d’ingresso. Dato che hai sempre scritto commedie, la gente ti vede come un regista di commedie. Accetteresti di dirigere una commedia, come tuo primo film?”. All’inizio non gli ho creduto e ho continuato a insistere per un po’. Ma dopo l’ennesimo rifiuto ho deciso di scrivere una commedia, per vedere se sarebbe stato davvero così semplice ottenere i finanziamenti necessari. È così che è nato Ready o/r Knot, che poi è stato effettivamente prodotto.



— Ora realizzerà quel famoso thriller?



Sì, proprio grazie a The Last Dance. All’improvviso, gli investitori adorano quel copione; e di questo sono davvero riconoscente.



— La prima metà di The Last Dance è composta da diversi aneddoti messi insieme. Sono frutto delle sue ricerche o del lavoro creativo?



Quando ho raccontato la storia a Dayo Wong, gli ho spiegato che il nome cinese del suo personaggio si ispira al monaco Daosheng, che trovò l’illuminazione dopo aver visto il mondo. La prima metà del film quindi è la storia di “Daosheng che vede il mondo”. Volevo che il protagonista avesse una rivelazione dopo aver visto il mondo; raccontare una storia su “vedere il mondo” è una parte fondamentale del film. Detto ciò, alcune di queste storie sono basate su fatti realmente accaduti. Per esempio, la madre che imbalsama il figlio defunto è una storia vera, anche se nel caso reale si trattava di una figlia che imbalsamava il padre. Le altre vicende sono anch’esse frutto della ricerca. Per esempio, sono rimasto sorpreso nell’apprendere che una città avanzata come Hong Kong segue delle regole piuttosto ottuse. Per esempio, non posso organizzare un funerale per qualcuno a meno di non essere un parente stretto. Questo significa che, poiché non esiste nessuna legge che tuteli le unioni tra persone dello stesso sesso, in un’unione di fatto uno dei due partner non può occuparsi del funerale dell’altro. Ecco perché ho voluto usare il film per definire cos’è la “famiglia”. Ci sono diverse forme di famiglia in ciascuna delle storie del film. Vivere sotto lo stesso tetto, vedersi ogni giorno e condividere lo stesso sangue rende le persone una famiglia? E chi condivide non lo stesso sangue, ma un amore reciproco?



— Attraverso i riti funebri il film analizza anche la misoginia all’interno della cultura cinese. È partito dal mondo dei funerali o prima ha deciso di affrontare il concetto di misoginia?

Prima volevo esplorare la misoginia, perché mi sono reso conto che è tutt’ora presente anche in una città sviluppata come Hong Kong. Durante la pandemia, ho perso molte persone a me care e una di queste aveva solo donne tra i parenti prossimi: la madre era morta e le due figlie erano le uniche a poterla accompagnare. Mentre ci davamo da fare per il funerale, il sacerdote taoista continuava a chiedere che fosse un uomo a occuparsi dei rituali. Quello era l’ultimo gesto che le due figlie potevano fare per la madre, ma certe cose non potevano farle. Dovevano davvero starsene indietro, solo perché femmine? Continuavo a sentir dire che le donne non potevano toccare certe cose perché le donne sono “contaminate”. È una cosa che detesto, ecco perché volevo parlarne nel film. Nella mia famiglia, mia madre, che quest’anno compie 70 anni, ha sempre lavato a mano la sua biancheria. Un giorno le ho chiesto perché non la mettesse con il resto del bucato e lei mi rispose che suo padre, ovvero mio nonno, le aveva detto che la biancheria intima delle donne era contaminata e non poteva essere lavata insieme agli indumenti degli uomini. Se fossero stati lavati insieme, gli uomini sarebbero stati colpiti da sventura, una superstizione davvero ridicola. Mio nonno lavava i suoi vestiti separatamente da quelli della moglie e della figlia, eppure non è mai diventato ricco. La cosa spaventosa è che a causa di quella frase mia madre ancora oggi, a 70 anni, la sua biancheria se la lava a mano.

— Cosa l’ha spinta a scegliere due attori comici molto famosi per interpretare personaggi tanto seri?



Credo che i comici siano grandi attori. Basta pensare a Leung Sing-po, all’epoca del bianco e nero, a Sun Ma Sze Tsang, Michael Hui, Stephen Chow, Ronald Cheng, Dayo Wong... Sono tutti attori comici, ma penso che siano anche grandi interpreti. Tuttavia, poiché hanno scelto di far ridere, non sempre il pubblico riconosce il loro talento interpretativo. Volevo mostrare al pubblico che anche i comici sanno recitare. 
Ovviamente, nella scelta di Dayo sono entrate in gioco anche considerazioni di carattere commerciale: era l’attore più redditizio del momento, e io avevo bisogno di qualcuno che avesse l’acutezza necessaria per interpretare il mio Daosheng. Non credo di dover perdere tempo per convincere nessuno dell’intelligenza di Dayo. Inoltre, dato che ha studiato filosofia, pensavo che avrebbe trovato un modo tutto suo di veicolare, attraverso la sua performance, le tematiche del film sulla vita e la morte.

È stato più o meno nello stesso periodo che ho pensato a Michael Hui per il personaggio di Master Man. Per me, Michael Hui è davvero il Grande Maestro. Al banchetto annuale della Hong Kong Screenwriters’ Guild vige una tradizione: i nuovi arrivati sono seduti ai tavoli più lontani. Man mano che si acquisisce esperienza, ci si avvicina al tavolo principale. Ma Michael Hui si è sempre seduto al tavolo principale! È una leggenda. L’ho visto recitare in un film taiwanese dal titolo Godspeed, che metteva in luce la sua bravura in un film impegnato, e pensai che questo personaggio [in The Last Dance] potesse far emergere un lato di lui che nessuno aveva mai visto. Così, ho detto al mio finanziatore che avrei voluto scritturarlo.
Solo dopo averli confermati entrambi mi sono reso conto che avevano lavorato insieme in The Magic Touch, oltre 30 anni fa. Ed è venuto fuori che da allora non avevano più lavorato nello stesso film.



— Parliamo di Michelle Wai, che ha recitato in tutti e tre i film da lei diretti. Può raccontarci come si è evoluto il vostro rapporto professionale, da Ready o/r Knot fino ad oggi?



È un’attrice molto solerte e brillante. Quando Michelle ha accettato di lavorare in Ready o/r Knot, non aveva molta esperienza nelle commedie, specialmente del tipo che faccio io, che richiedono tempismo e abilità interpretative. Era così confusa in quel film! Dopo tre giorni di riprese, mi chiamò in lacrime, dicendomi che non aveva idea di come rendere il suo personaggio. Aveva l’impressione di sbagliare tutto, perché io correggevo ogni sua battuta affinché si adattasse al mio ritmo e al mio stile di dialogo.
Quando è stato il momento del sequel, Ready o/r Rot, ha iniziato a rilassarsi e a dire la sua, tanto che è stata candidata al premio come migliore attrice [agli Hong Kong Film Awards]. Io ritengo che con The Last Dance abbia fatto un ulteriore salto di qualità. La più grande differenza che ho notato tra Ready o/r Knot e The Last Dance è che Michelle ha acquisito finalmente sicurezza ed è molto maturata.

Quando le parlai di The Last Dance, avevo intenzione di scrivere il personaggio di Kwok Man-yuet per lei, ma eravamo abbastanza in confidenza perché le confessassi che non ero sicuro di volerle affidare quel ruolo. La mattina successiva lei mi chiamò per chiedermi di darle la parte. Aveva detto al suo agente che si sarebbe concentrata solo su quel personaggio per un anno intero e non avrebbe accettato altri lavori.
Prima ancora che io finissi la sceneggiatura, Michelle e io abbiamo incontrato dei sacerdoti taoisti per la formazione. Per tre mesi nessun sacerdote taoista ci ha voluto insegnare il rituale di “rompere le porte dell’inferno” perché non capivano cosa stessimo facendo. Ci hanno addirittura respinti, dicendo: “Le donne non rompono le porte dell’inferno”. Tre mesi dopo ho consegnato loro il trattamento del film, spiegando perché volevo raccontare quella storia e perché doveva essere una donna a “rompere le porte dell’inferno”. Alla fine, siamo riusciti a convincere due sacerdoti taoisti ad aiutarci. In totale, Michelle si è preparata per nove mesi. Penso che si sia tuffata dentro questo film con grande coraggio.



— Sono passati tre anni da quando ha dato il via a questo progetto. La sua comprensione dei temi trattati nel film è cambiata?



Sono sempre stato una persona molto pessimista. All’inizio, la conclusione della sceneggiatura diceva sostanzialmente che la vita non ha nessuno scopo. Come afferma il film, la vita è un conto alla rovescia dal momento in cui inizia. Costruiamo relazioni e le accumuliamo nel tempo, ma quando abbiamo messo da parte una certa quantità di affetto, ecco che il nostro tempo è finito. Allora, qual è il senso dell’esistenza su questa terra? È così stupido. Ho iniziato a chiedermi quale fosse il senso della vita: il senso della vita è che la vita non ha senso. Noi che lavoriamo nel cinema o in altre industrie culturali creative abbiamo modo di documentare la nostra esistenza in questo mondo. Ma per la maggior parte delle persone, l’unica prova della loro esistenza è la loro presenza fisica, sono le persone che hanno intorno. Quando i nostri corpi tornano alla natura, restano solo i ricordi di chi ci ha conosciuto. Quando anche l’ultima persona che si ricorda di noi muore, è come se non fossimo mai esistiti. Ma allora, che senso ha venire al mondo?

Quando ho finito la sceneggiatura erano tutti infuriati con me, compreso il mio co-sceneggiatore, tutta la troupe, il mio produttore, Dayo Wong, Elaine Jin, Michelle Wai, Rachel Leung, Chu Pak-hong, proprio tutti. Dayo ed Elaine sono stati i più duri con me, mentre Michelle, Rachel e Pak-hong, che lavorano con me fin da Ready o/r Knot, sono stati più comprensivi nei miei confronti. Il mio co-sceneggiatore era scioccato: stavamo parlando di Everything Everywhere All at Once e io ho detto che detestavo il suo fiacco finale hollywoodiano. Per me non era realistico. Il film sarebbe dovuto finire con la scena delle rocce. Se lo avessi diretto io, l’avrei fatto finire con quella scena: le rocce, dissolvenza al nero, e ci sarebbero stati 15 minuti garantiti di standing ovation. Il mio co-sceneggiatore diceva che con quell’atteggiamento non sarei mai andato da nessuna parte.

Elaine, che è come una madre per me, mi chiamò e mi urlò contro per due ore. Continuava a chiedermi: “Perché hai scritto una cosa del genere?”. Poi mi ha invitato a mangiare dim sum, come facciamo di solito una o due volte al mese. Mi ha detto che la sceneggiatura più triste che avesse mai letto prima di questa era Mad World di Wong Chun, ma in quella almeno c’era un piccolo raggio di speranza. La mia sceneggiatura invece ne era del tutto priva. Era un vicolo cieco. Le ho risposto: “In realtà un barlume di luce c’è”, e lei: “Ma è piccolo come la fiammella di un accendino”.

Poi Dayo Wong ha letto la sceneggiatura e mi ha chiesto se potevo cambiare il finale. “Come cineasti, ha detto, abbiamo una responsabilità sociale. Non stai promuovendo nessun comportamento negativo, ma se uno spettatore fraintende il messaggio e prende una decisione avventata? Dovremmo convivere con questo pensiero per il resto della nostra vita”. Trascorse tutti i 30-40 giorni delle riprese cercando di rincuorarmi. Continuava a chiedermi di riconsiderare il finale. Quando non stavamo girando, mi chiedeva di uscire per parlare. Non discutevamo molto della sceneggiatura, ma parlavamo della vita, della nostra visione della vita e della morte, delle nostre esperienze. Mi disse che si sentiva allo stesso modo quando aveva 40 anni e mi ha assicurato che nel giro di dieci anni l’avrei pensata diversamente.
Non saprei dire esattamente quando è successo, ma a poco a poco mi ha fatto cambiare idea. Un giorno stavamo girando a Hung Hom. Avevamo già girato il finale originale. Stavo aspettando un’auto, che improvvisamente si guastò, cosa che non succede mai perché di solito le controlliamo prima che arrivino sul set. Ero fermo all’incrocio fuori dalle onoranze funebri, e stavo guardando dentro un tunnel che portava fuori dal quartiere, e dissi al mio co-sceneggiatore: “Lasciare il quartiere attraversando questo tunnel fa pensare all’anima di qualcuno che viene liberata dall’oltretomba. Nel film diciamo che la vita è un viaggio. E se attraversare questo tunnel fosse come una rinascita? Poi passiamo a una ripresa aerea delle auto sull’autostrada, a simboleggiare le vite che scorrono fianco a fianco. Penso che sia davvero significativo”. Gli ho detto di girare questo finale. Dopo innumerevoli modifiche, alla fine ho deciso di usare quel finale. Penso che sia stato tutto merito di Dayo.

— Come mai ha deciso di riprendere in mano il film e realizzare questa versione estesa?



È stato grazie a Dayo. Aveva promesso al pubblico che, se il film avesse battuto il record storico di incassi che lui deteneva con A Guilty Conscience, sarebbe stata realizzata una versione estesa. Durante il montaggio, abbiamo condotto numerosi gruppi di discussione e ricevuto moltissimi feedback dal pubblico per arrivare alla versione cinematografica da 127 minuti. Pensavo che quella fosse la versione rispetto alla quale il pubblico sarebbe stato più ricettivo. Ma quando il film è uscito, il pubblico lo ha amato talmente tanto che continuava a chiedere di più. In realtà, avevo detto agli spettatori durante gli incontri con il pubblico che non lo avrebbero apprezzato maggiormente se il film fosse durato di più. Se così fosse stato, significava che io e [il co-montatore] William Chang avevamo torto. Tuttavia, sapevo che una versione più lunga avrebbe permesso di sviluppare meglio alcuni personaggi, quindi mi sono deciso a realizzare questa versione estesa.



— In che modo ha selezionato le scene da reinserire? Ha rimesso due scene che ho trovato decisive: quella con Kaki Sham (nel ruolo di fratellastro di Dominic) e quella di Elaine Jin che parla del suo defunto marito.



Volevo soddisfare la curiosità del pubblico riguardo ai personaggi, far conoscere meglio Lin e Dominic. Inizialmente, i gruppi di discussione ci avevano detto che in quelle scene il ritmo del film rallentava, per questo le avevamo rimosse. Il ritmo sarebbe stato difficile da gestire per alcuni spettatori, specialmente per chi guardava il film per la prima volta. Voglio che il film raggiunga un pubblico più ampio possibile. Per gli spettatori più navigati, The Last Dance potrebbe non essere abbastanza artistico o i messaggi potrebbero risultare troppo espliciti, ma d’altra parte non volevo nemmeno lasciare troppo al caso, desideravo che anche chi non va spesso al cinema potesse apprezzarlo. Credo di aver trovato il miglior equilibrio possibile.



— La dicitura usata indica chiaramente che si tratta di una “versione estesa” e non di un director’s cut.



Perché la versione cinematografica è già un director’s cut. Se chiamassi la “versione estesa” director’s cut, sembrerebbe che in origine avrei voluto che il film fosse così. La versione cinematografica è già quella che volevo. Il lavoro creativo può essere soggettivo, ma io produco film in modo oggettivo. Il mio film deve confrontarsi con il pubblico, ho condotto dei gruppi di discussione perché volevo ottenere un feedback dal pubblico. Se gli spettatori ritengono che quella versione offre loro la migliore esperienza, fidarmi del loro parere rientra nel mio giudizio. Lasciar credere invece che la versione estesa sia il film che avrei voluto fare sarebbe ingiusto nei confronti della troupe, del montatore e dei miei finanziatori. La versione estesa è semplicemente una versione più lunga del film.



— In precedenza ha affermato di voler far girare questo film all’estero, nei festival cinematografici. Pensa di essere riuscito a far conoscere all’estero ciò che voleva?



Credo di sì. La proiezione più memorabile finora è stata quella di Rotterdam. In tutto ci sono state tre proiezioni. La prima era piena di spettatori hongkonghesi provenienti da tutta Europa, ma la seconda e la terza erano davvero composte da pubblico internazionale. Dopo la proiezione, mi hanno fatto molte domande che mi hanno sorpreso. Sono stato felice che l’abbiano capito, hanno anche evidenziato degli elementi ai quali non avevo pensato. Le domande del grande pubblico mi hanno ricordato che, quando noi cineasti di Hong Kong facciamo film, stiamo informando il pubblico internazionale su quanto sta accadendo a Hong Kong. Abbiamo la responsabilità di dire che ci sono ancora cose che vale la pena raccontare in questo luogo. Questo è il senso di soddisfazione che provo partecipando ai festival cinematografici.

Kevin Ma