L’industria del cinema giapponese è come un ristorante vecchio stile: nuovi cuochi e camerieri arrivano man mano che quelli vecchi vanno in pensione o muoiono, ma il menù rimane sempre più o meno lo stesso, un decennio dopo l’altro. Nel 2018, come ogni anno a partire dagli anni Ottanta, o forse ancora da prima, i grandi film giapponesi sono stati o nuovi episodi di venerabili serie di animazione, o film live-action derivati da altri mezzi di comunicazione e sponsorizzati da conglomerati mediatici noti come “comitati di produzione” (seisaku iinkai).
Il più grande successo giapponese del 2018, con incassi per 85 milioni di dollari statunitensi, è stato Code Blue the Movie, un thriller su una squadra medica di elisoccorso tratto da una famosa serie televisiva della Fuji TV. Detective Conan: Zero the Enforcer, ventiduesimo episodio della serie di animazione su un investigatore adolescente intrappolato nel corpo di un bambino, si è piazzato al secondo posto con un incasso di 81 milioni di dollari, seguito da Doraemon the Movie: Nobita’s Treasure Island, altro episodio di una serie di animazione storica, che ha incassato 48,6 milioni di dollari. Questi tre colossi del botteghino sono stati tutti distribuiti dalla Toho, di gran lunga il più importante distributore ed esercente del Giappone.
Nel 1983 anche Antarctica, il film in cima alla classifica del botteghino giapponese, era l’adattamento di una serie della Fuji TV, e la sua società di distribuzione era sempre la Toho (in partenariato con l’ormai scomparsa Nippon Herald). Il film, su due cani sopravvissuti per un anno in Antartide dopo essere stati abbandonati da un gruppo di ricercatori giapponesi, ha anche ispirato un remake hollywoodiano, ed è stato determinante per la formazione del sistema del “comitato di produzione”. Trentacinque anni dopo, l’industria cinematografica nipponica ne patisce ancora le conseguenze.
Il campione d’incasso del 2018, però, è stato Bohemian Rhapsody, con 95 milioni di dollari. Al secondo posto nel contingente di titoli stranieri e quarto assoluto, si è collocato Jurassic World – Il regno distrutto con 74 milioni di dollari. I film stranieri si sono accaparrati ben sette dei primi dieci posti nella classifica di botteghino dell’anno.
Nel 2018 gli incassi totali di box office hanno subito un calo del 2,7% su base annua, assestandosi a 2,04 milioni di dollari, che rappresenta comunque il terzo valore assoluto più alto dacché la Motion Picture Producers Association of Japan (Eiren) ha iniziato a registrare il valore totale del botteghino, nel 2000 (prima di allora, l’organizzazione monitorava unicamente i ricavi dei distributori).
I film locali hanno registrato incassi per 1,12 miliardi di dollari, con un calo del 2,8 % rispetto al 2017, ma hanno conquistato il 54,8 % della quota di mercato per l’undicesimo anno di fila. I biglietti venduti nel corso dell’anno sono stati 169,2 milioni e 31 film giapponesi hanno chiuso la loro programmazione con incassi per almeno un milione di yen (9,05 milioni di dollari), che rappresenta la soglia per essere considerato un successo commerciale. Nel 2017 tali film erano 38.
Nel corso del 2018 sono usciti in sala 613 film locali e 579 film non giapponesi, per un totale di 1.192 film ed è il sesto anno consecutivo che i film in uscita superano il migliaio.
I due film nipponici che hanno attirato di più l’attenzione lo scorso anno non erano pellicole di animazione e non erano neanche prodotti scelti da un comitato in mezzo a serie televisive, manga o romanzi bestseller, di solito le tre principali fonti a cui si attinge per il cinema commerciale giapponese. Un affare di famiglia di Kore-eda Hirokazu, che è finito al quarto posto nella classifica dei film locali con un incasso di 41 milioni di dollari, ed è arrivato decimo nella classifica totale di botteghino, è tratto da una sceneggiatura originale del regista. Invece di raccontare le avventure di medici volanti o, per citare solo alcuni dei soggetti più collaudati, catastrofi mediche o giovani amanti tormentati, Un affare di famiglia è un serio film drammatico su una famiglia di ladruncoli e truffatori da strapazzo che addestrano una bambina abusata per farla diventare una taccheggiatrice. Nella storia mancano i soliti colpi di scena o gli elementi del melodramma strappalacrime; eppure Un affare di famiglia è diventato il maggior successo di tutta la lunga e brillante carriera di Kore-eda, a dimostrazione del fatto che è ancora possibile attirare il grande pubblico con la qualità piuttosto che con gli stereotipi e la promozione.
Per molti, a garantire la qualità del film è stato il maggior riconoscimento del festival cinematografico più importante al mondo: la Palma d’Oro a Cannes. Erano ventun anni che un film giapponese non riceveva quel premio, dopo L’anguilla di Imamura Shohei, del 1997. Tutto questo ha fatto sì che Un affare di famiglia portasse in sala anche quegli spettatori che in media vanno al cinema una volta l’anno, o forse anche meno.
I contenuti del film hanno suscitato un forte dibattito, e alcuni forum di destra si sono lamentati che la storia, essendo incentrata sul mondo della criminalità, infanga l’immagine del Giappone. È stata controversa anche la decisione di Kore-eda di prendere le distanze dal governo attuale attraverso il rifiuto di un invito fattogli dal ministro dell’Istruzione, Cultura, Sport, Scienza e Tecnologia dopo il festival di Cannes. Il primo ministro Abe ha reso al regista pan per focaccia non rilasciando alcun comunicato ufficiale di congratulazioni; tuttavia, il trambusto che ne è scaturito non ha nuociuto ai risultati del film al botteghino – anzi, forse è stato anche d’aiuto.
Ma il film giapponese che ha fatto più sensazione a livello mondiale, non solo nel corso dell’anno ma addirittura del decennio o persino del millennio, è stato One Cut of the Dead, una commedia sugli zombie realizzata con un budget di tre milioni di yen (pari a 27.000 dollari) dall’esordiente Ueda Shinichiro con attori completamente sconosciuti. Il film, uscito a giugno in due piccole sale di Tokyo, è diventato rapidamente un grandissimo successo di passaparola: gli appassionati hanno pubblicato su blog e Twitter recensioni entusiaste a cui si sono aggiunte anche quelle di alcune celebrità, e One Cut of the Dead si è trasformato in un film imperdibile che a ogni proiezione faceva il tutto esaurito.
Ueda ha scritto la sceneggiatura, ha scritturato gli attori attraverso dei workshop e ha girato il film in soli otto giorni, con il sostegno della Enbu Seminar, una scuola per aspiranti attori e registi, e del suo presidente, Ichihashi Koji, con cui ha lavorato instancabilmente per lanciare la pellicola, presenziando a decine di proiezioni e postando continuamente sui social.
C’è stato un certo fermento anche riguardo al soggetto del film. In agosto, il drammaturgo e direttore di una compagnia teatrale Wada Ryoichi ha sostenuto che Ueda aveva plagiato un’opera teatrale da lui scritta e prodotta. Il regista ha negato strenuamente ogni addebito (sebbene ora i titoli di coda facciano riferimento all’opera teatrale come fonte di ispirazione), ma nulla ha potuto rallentare lo slancio del film. One Cut of the Dead finora è stato proiettato in oltre trecento sale e ha incassato 28 milioni di dollari, pari a mille volte il suo budget.
Ho avuto anch’io la mia piccola parte in tutto questo: all’inizio dello scorso anno ho visto One Cut of the Dead e l’ho raccomandato al FEFF, e in aprile ero presente, insieme a Ueda, Ichihashi, e cinque attori del film, alla prima internazionale del film a Udine. I cinquecento spettatori presenti alla proiezione, avvenuta a mezzanotte, hanno accolto questa storia – che si articola su tre livelli e inizia con un unico, caotico piano sequenza di trentasette minuti – con risate, applausi e un’ovazione di cinque minuti. One Cut of the Dead ha perso per un soffio il premio del pubblico, che è andato a un blockbuster coreano, ma ha anche dimostrato che il convenzionale buonsenso che impone all’industria cinematografica giapponese di andare sul sicuro con soggetti già collaudati è ormai superato, se non addirittura fallimentare.
Le possibilità che Ueda, che sta attualmente girando il suo secondo film, o chiunque altro, possa ripetere questo successo nell’immediato futuro sono davvero esili, ma almeno si vedono segni di cambiamento.
Poiché la popolazione giapponese invecchia e continua a ridursi, l’industria del cinema nipponico deve affrontare la prospettiva di una contrazione a livello nazionale, e sta quindi guardando all’estero alla ricerca di nuovi mercati e altre fonti di ispirazione.
Appartengono a quest’ultima categoria i remake giapponesi di film stranieri, i cui esempi del passato comprendono le versioni nipponiche di Ghost (1990), Gli spietati (1992) e Sideways – In viaggio con Jack (2004). Negli ultimi anni, però, la ricerca di nuovi materiali si è spostata da Hollywood all’Asia, e i numeri della produzione hanno avuto un incremento.
Tra i remake di film asiatici troviamo Sunny: Our Hearts Beat Together di One Hitoshi, rielaborazione di un film coreano del 2011 sull’amicizia femminile, You Are the Apple of My Eye di Hasegawa Yasuo, remake di una commedia romantica adolescenziale taiwanese del 2011, e il thriller investigativo di Irie Yu del 2017 Memoirs of a Murderer, tratto dal film coreano Confession of Murder del 2012.
Pur non essendo un remake, il film dello scorso anno Ten Years Japan si ispirava a Ten Years, film antologico del 2015 che cercava di immaginare la situazione di Hong Kong fra dieci anni. La pellicola, sotto la supervisione di Kore-eda Hirokazu, è divisa in cinque parti realizzate da altrettanti giovani registi giapponesi e ambientate nel Giappone del prossimo futuro.
Malgrado tale fermento creativo, l’unico remake locale a entrare nella classifica dei primi cinquanta film al botteghino di quest’anno (per l’esattezza al numero 41) è stato 50 First Kisses di Fukuda Yuichi, tratto da 50 volte il primo bacio, commedia romantica del 2004 interpretata da Adam Sandler.
Intanto, sempre più registi e attori giapponesi stanno lavorando all’estero, come nel caso di Hirayanagi Atsuko con il magnifico Oh Lucy!, ambientato tra Tokyo e Los Angeles, e di Fujimoto Akio con Passage of Life, un originale dramma sulle difficoltà che una famiglia proveniente dal Myanmar incontra a Tokyo e Yangon.
Un altro talento del Sol Levante che lavora fuori dal Giappone è Ayano Go, attore richiestissimo che è stato scritturato, insieme alla diva cinese Song Jia, come coprotagonista della commedia Po Zhen Zi, in cui ha il ruolo di un aristocratico giapponese che, dopo essere sopravvissuto alla battaglia navale di Dan-no-ura del 1185, finisce in un villaggio costiero cinese dove si innamora del personaggio interpretato da Song. Il film sarà distribuito nelle sale cinesi il prossimo anno.
Analogamente, sempre più stranieri lavorano nell’industria cinematografica nipponica in ruoli che non sono quelli dei soliti, stereotipati, “forestieri” che rivestono la parte del cattivo o dell’antagonista comico. Si tratta di produttori, registi e attori, che lavorano soprattutto nel cinema indipendente, ma che a volte si fanno strada anche nella gerarchia dell’industria cinematografica. È il caso di Jason Gray, un canadese che lavora con la moglie giapponese Eiko ed è fra i produttori di To the Ends of the Earth, l’ultimo film di Kurosawa Kiyoshi, frequentatore abituale del festival di Cannes.
Sono aumentate anche le coproduzioni tra giapponesi e partner asiatici, incoraggiate dal trattato di coproduzione tra Giappone e Cina che è stato ratificato nel maggio del 2018. Un considerevole vantaggio del trattato per i cineasti giapponesi è che i film coprodotti non sono soggetti ai contingentamenti che la Cina solitamente impone sulle importazioni di film stranieri.
Gli eccellenti risultati che alcuni film nipponici hanno ottenuto in Cina, secondo mercato cinematografico al mondo per dimensioni, sono il motivo per cui i cineasti cinesi desiderano lavorare con società giapponesi. Tra i film che hanno avuto le migliori performance ci sono Your Name, la pellicola di animazione di Shinkai Makoto (83 milioni di dollari) e Doraemon: Great Adventure in the Antarctit Kachi Kochi (21,5 milioni di dollari).
Il regista di Hong Kong Kenneth Bi, il cui dramma romantico Wish You Were Here ha come protagonista l’attore giapponese Osawa Takao ed è ambientato in parte nell’isola giapponese di Hokkaido, è stato uno dei primi a beneficiare del trattato di coproduzione.
La più rilevante coproduzione cino-giapponese del 2018, però, è stata Legend of the Demon Cat, un fantasy storico diretto dall’importante autore cinese Chen Kaige e tratto da un romanzo dello scrittore giapponese Yoneyama Mineo. Finanziato da un consorzio di cui faceva parte anche la Kadokawa, casa editrice del romanzo e co-distributore del film, Legend è uscito nelle sale giapponesi il 24 febbraio e ha incassato 15 milioni di dollari, un risultato deludente considerando che il suo budget dichiarato era di 200 milioni di dollari.
Questo esempio mediocre non ha però scoraggiato la Sony Pictures Entertainment Japan, che ha finanziato Kingdom, una nuova produzione tratta dal manga di successo di Hara Yasuhisa, girata in Cina e diretta dal mago degli effetti speciali più elaborati Sato Shinsuke (Inuyashiki, Gantz). Questo dramma in costume si sviluppa nella Cina del Periodo Sengoku, o Periodo degli Stati Belligeranti (1467-1600), ma ha un cast interamente composto da attori giapponesi. La sua uscita nelle sale del Giappone è prevista per il 19 aprile di quest’anno.
Intanto, il listino dei distributori giapponesi per il 2019 offre sempre gli stessi gialli dalla trama intricata e gli stessi drammi romantici strappalacrime che appaiono sugli schermi del paese con la stessa regolarità dei ciliegi in fiore in primavera. Con rare eccezioni tali film, che ricevono il via libera per via dei divi che li interpretano o del materiale a cui si ispirano (manga di successo o romanzi bestseller), non funzionano bene fuori dal Giappone.
Altri sempreverdi sono i lenti drammi sentimentali, familiari o sociali spesso ambientati negli angoli più remoti del paese e che solitamente attirano un pubblico più anziano ma non gli spettatori stranieri.
Cos’è che vale la pena di attendere con impazienza? Per il puro e semplice divertimento, la commedia musicale di Yaguchi Shinobu Dance with Me si colloca ai primi posti. Tratta da una sceneggiatura originale su una donna stressata che si mette a ballare e cantare ogni volta che sente della musica, la pellicola è attesa in sala per la prossima estate. Il trailer, nel quale si vedono impiegati di sesso maschile e femminile che ballano e cantano, ricorda You Can Succeed Too, un delizioso ma poco conosciuto film del 1964, interpretato da Frankie Sakai nel ruolo di un impiegato grassoccio e intraprendente e descritto dalla società di distribuzione Toho come il “primo vero musical” giapponese.
Nella mia lista dei film da vedere c’è anche Katsuben, la nuova fatica di Suo Masahiro su un aspirante benshi (voce narrante di film muti) in una cittadina giapponese di cent’anni fa. Il film, tratto da una sceneggiatura originale del regista e interpretato da Narita Ryo nel ruolo del benshi, uscirà in sala il prossimo dicembre. Suo afferma che sarà “puro divertimento”. Un riferimento è la sua commedia di successo Shall We Dance? del 1996, in cui il timido colletto bianco Yakusho Koji si trasforma in un competitivo ballerino da sala.
Altra pellicola imperdibile di quest’anno è la già menzionata To the Ends of the Earth del regista Kurosawa Kiyoshi. Girato in location nell’Uzbekistan, il film ha come protagonista Maeda Atsuko nella parte di una giornalista di un varietà televisivo che intraprende un viaggio in questo paese dell’Asia centrale per andare alla scoperta di sé. La storia rappresenta in un certo senso il seguito di Seventh Code, un dramma del 2014 carico di suspense, sempre di Kurosawa, in cui Maeda interpretava una donna che viaggia fino a Vladivostok per incontrare un losco giapponese. La storia di per sé era piuttosto esile, ma Maeda aveva colpito con la sua interpretazione intensa e, a giudicare dal trailer del nuovo film, in cui la si vede correre a perdifiato, l’attrice ha di nuovo dato il massimo per Kurosawa. La distribuzione del film è prevista per l’estate, dopo la sua probabile proiezione al festival di Cannes.
Un altro frequentatore abituale di Cannes, Kore-eda Hirokazu, ha diretto The Truth, film drammatico sul difficile rapporto tra un’attrice e la figlia ormai adulta rientrata di recente dagli Stati Uniti. Girata in Francia e tratta da una sceneggiatura originale di Kore-eda, la pellicola ha come protagoniste Catherine Deneuve nel ruolo dell’attrice, e Juliette Binoche nella parte della figlia. Sarà interessante vedere come Kore-eda lavora al di fuori del dramma familiare che rappresenta la sua zona di sicurezza. Il film è un altro possibile candidato al festival di Cannes, e la sua uscita nelle sale giapponesi avverrà dopo il festival, in data non precisata.
I distributori giapponesi intanto stanno già rullando i tamburi per i film in uscita durante la Golden Week, a cavallo tra aprile e maggio, che rappresenta una stagione di punta per il botteghino. La Toho farà sentire il suo peso con Kingdom di Sato Shinsuke, il già menzionato film d’azione in costume tratto dal manga bestseller di Hara Yasuhisa. Girato tra Cina e Giappone, la pellicola sembra possedere la forza narrativa e il talento visivo tipici di Sato.
Un altro film che uscirà nel periodo della Golden Week è Kakegurui, un fantasy distribuito dalla Gaga su una liceale (Hamabe Minami) che si trasferisce in una scuola dove la gerarchia fra studenti viene determinata dalle vincite al gioco d’azzardo. La protagonista, una giocatrice di prim’ordine, inizia subito la sua scalata verso l’alto. Tratto da un manga di successo di Kawamoto Homura (testi) e Naomura Toru (illustrazioni), Kakegurui ha già generato una serie televisiva live-action. Il trailer ha lo stesso aspetto esagerato e frenetico da black comedy di Teiichi: Battle of Supreme High (2017), la graffiante satira politica di Nagai Akira ambientata in un liceo molto elitario.
Finora il film più divertente del 2019 è Fly Me to the Saitama, adattamento di Takeuchi Hideki di un manga degli anni Ottanta su un universo alternativo nel quale avviene la ribellione della popolazione di Saitama (l’equivalente giapponese del New Jersey) contro i signori e padroni di Tokyo. I protagonisti sono Nikaido Fumi, nel ruolo del figlio viziato del corrotto governatore di Tokyo, e la popstar Gackt, che interpreta un misterioso studente trasferitosi nella stessa scuola privata del giovane. Il film è pervaso di gag allusive che hanno come bersaglio la tanto ridicolizzata prefettura del titolo. Com’era già accaduto nella sua commedia di viaggi nel tempo Thermae Romae del 2012, Takeuchi supera agevolmente le barriere culturali, e stavolta lo fa con una commedia del genere “buzzurri contro damerini di città”, che chiunque si sia trovato nell’una o nell’altra posizione è in grado di capire.
Una pellicola che probabilmente dividerà il pubblico è The Great War of Archimedes, il dramma di Yamazaki Takashi sulla costruzione della Yamato, un’iconica nave da guerra della seconda guerra mondiale. Ispirato a un manga di Mita Norifusa, il film si sviluppa all’inizio degli anni Trenta, quando la marina giapponese deve scegliere tra due proposte: la costruzione di una moderna portaerei oppure della Yamato, una nave che diventerà presto obsoleta. Un sostenitore del primo progetto è Yamamoto Isoroku, l’ammiraglio che dirigerà l’attacco contro Pearl Harbour.
Il film, che ha come protagonista Tachi Hiroshi nel ruolo di Yamamoto, per il tema è il sequel di The Eternal Zero, il successone di Yamazaki del 2013 sui piloti kamikaze giapponesi della seconda guerra mondiale, che aveva sollevato polemiche per il suo blando nazionalismo. The Great War of Archimedes, che esce in sala il 26 luglio, forse trasmetterà a qualche spettatore la nostalgia dei giorni di gloria dell’impero nipponico – ma ad altri farà provare un senso di gratitudine per la scelta della marina di puntare sul cavallo (marino) sbagliato.
Mark Schilling