Takeshi Kitano: una panoramica

Takeshi Kitano* è diventato il regista giapponese più celebrato a livello internazionale dagli anni Novanta in poi per una serie di fortunate coincidenze. 
Nel decennio precedente Kitano era diventato onnipresente sui media, prima come componente di un famoso duo manzai (coppia comica) chiamato Two Beats e successivamente come talento eclettico, intensamente produttivo e impavidamente iconoclasta. 

Come “Beat Takeshi” (il nome di scena che aveva adottato per la sua carriera nel manzai), interpretava lo spiritosone dalla lingua tagliente, sia che avesse il ruolo di presentatore di un programma di attualità sia quello di conduttore in Takeshi’s Castle, una stravagante trasmissione di giochi nella quale i concorrenti si affrontavano in sfide di vario genere, con Kitano che presiedeva nel ruolo del “conte” del finto castello. Andata in onda dal 1986 al 1990 sulla rete televisiva TBS, la trasmissione ha avuto una lunga vita postuma attraverso diverse versioni internazionali. 

Kitano intanto recitava in fiction tv e film per il cinema, e la sua partecipazione al film Furyo (1983) di Oshima Nagisa, nel ruolo di un brutale sergente in un campo per prigionieri di guerra, gli diede lustro a livello internazionale. “Ogni volta che apparivo sullo schermo il pubblico iniziava a ridere indipendentemente dal ruolo che interpretavo”, ha dichiarato Kitano a chi scrive in un’intervista nel 1998. “Ci sono voluti all’incirca quindici anni affinché gli spettatori mi considerassero qualcosa di diverso rispetto a un semplice comico”. 

Nel 1989, il produttore Okuyama Kazuyuki chiese a Kitano di girare Violent Cop, un film hard-boiled che il regista veterano Fukasaku Kinji aveva rifiutato a causa di una sovrapposizione di impegni. Kitano accettò l’offerta, sebbene non si fosse mai seduto sulla sedia del regista. “All’inizio non avevo molta cognizione di come muovere la macchina da presa e via dicendo”, ha commentato nella stessa intervista. “Per questo [Violent Cop] alla fine somigliava a una foto ricordo”.

Eppure i critici furono entusiasti di questo film e Kitano, che interpretava un poliziotto incline alla violenza e in cerca di vendetta, ricevette il premio per la miglior regia allo Yokohama Film Festival. Violent Cop incassò 780 milioni di yen (6,5 milioni di US$) al botteghino: niente male per un regista esordiente, anche se la notorietà di Kitano a livello nazionale diede senza dubbio una spinta al film. 

Nei suoi film successivi Kitano sviluppò uno stile inconfondibile caratterizzato da sequenze lunghe, movimenti limitati della macchina da presa, umorismo asciutto, dialoghi smozzicati e, in film che parlavano di poliziotti e gangster, improvvise esplosioni di violenza. A differenza dei molti registi giapponesi che riprendevano gli scontri di strada o le sparatorie con tipi tosti che risorgevano come l’araba fenice dopo essere stati colpiti da pugni o pallottole, Kitano mostrava i personaggi che erano stati picchiati o che avevano ricevuto colpi di arma da fuoco cadere come marionette a cui sono stati recisi i fili. Come mi disse Kitano, questa modalità era semplicemente realistica. Ha affermato di aver assistito spesso a scontri tra bande della yakuza quando da bambino viveva in un quartiere povero di Tokyo: “Di solito si risolveva tutto con un pugno”, ha aggiunto.         

Nei suoi film, Kitano assumeva di solito il ruolo del protagonista, che si trattasse del gangster psicotico di Boiling Point (1991) o del sardonico braccio destro del boss di una gang in Sonatine (1993), e solitamente era lui ad assestarli, i colpi. Chiamatela pure megalomania del regista, ma Kitano aveva una forte presenza scenica: glaciale ma intenso, stoico ma imprevedibile. Dopo un incidente in scooter che quasi gli costò la vita, nel 1994, il suo volto deturpato gli servì come una maschera che poteva spaventare o intimidire, anche se il suo dispettoso senso dell’umorismo non lo ha mai abbandonato. 

Fuori dal Giappone, comunque, Kitano e i suoi film rimasero quasi del tutto sconosciuti finché, nel 1993, Sonatine venne presentato nella sezione Un Certain Regard del festival di Cannes e, sempre nello stesso anno, al London Film Festival. Alcuni spettatori non ne furono impressionati, come il divo francese Alain Delon che si lamentò “[Kitano] non è un attore: ha solo tre espressioni facciali”, mentre altri apprezzarono molto il suo film su una guerra tra bande a Okinawa, che mescolava commedia (i gangster che fanno sumo in spiaggia) e violenza (la belva scatenata interpretata da Kitano spazza via con un fucile d’assalto una sala per banchetti piena di malavitosi) in modi nuovi e disturbanti. Oltreoceano, Kitano acquisì un seguito entusiasta che comprendeva il regista Quentin Tarantino, il quale distribuì poi il film con la sua etichetta di DVD. 

In Giappone, invece, Sonatine fu un fiasco e incassò meno di un quinto del suo budget di 500 milioni di yen (4 milioni di US$), anche se il compositore Joe Hisaishi ricevette un Japan Academy Prize per la sua colonna sonora minimalista. Hisaishi in seguito sarebbe diventato un collaboratore abituale di Kitano. 

Kitano realizzò poi Getting Any? (1995), una commedia eccentrica sulla ricerca spasmodica del sesso da parte dello sfigato protagonista, interpretato da Dankan, il discepolo di Kitano, e Kids Return (1996), un toccante dramma su due amici che abbandonano la scuola superiore, uno per diventare un pugile, e l’altro un gangster, ma che vengono frustrati dai propri demoni personali. 

Con il suo settimo film, Hana-bi – Fiori di fuoco, Kitano si liberò dall’etichetta di “regista di culto” e scalò le vette cinematografiche internazionali. Il film, un dramma scarno, elegiaco e violento su un poliziotto (Kitano) che va fuori controllo quando il suo collega (Osugi Ren) viene colpito dalla pallottola di un gangster e rimane semiparalizzato, vinse il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia del 1997. Tale riconoscimento, che non veniva assegnato a un film giapponese dal 1958 (L’uomo del riksciò di Inagaki Hiroshi), fece di Kitano un autore celebrato a livello globale, e innalzò le sue quotazioni a livello di critica in patria. La classifica dei critici della rivista Kinema Junpo definì Hana-bi il miglior film giapponese dell’anno e Kurosawa Akira lo inserì nella sua lista personale dei 100 migliori film di tutti i tempi, cosa che rappresentava un passaggio del testimone da parte di un gigante dell’età dell’oro del cinema nipponico.  

Il giudizio di Kitano sul proprio film fu più modesto; paragonando Hana-bi – Fiori di fuoco a un esame di ammissione all’università, mi disse: “Credo di aver preso la  sufficienza in tutte le materie e di essere passato”. 

Da allora, quello è stato il suo punteggio più alto, almeno per quanto riguarda i premi internazionali. Parecchi dei suoi film successivi sono stati selezionati per i festival di Cannes e di Venezia, ma nessuno se n’è mai andato con i premi più ambiti. 

Il suo unico tentativo di realizzare un film “internazionale”, la pellicola d’azione Brother (2000), su uno yakuza che si reca a Los Angeles, venne stroncato dalla critica e fu una delusione al botteghino. Non molto tempo dopo, però, Kitano fece finalmente bingo con Zatoichi (2003), la sua personale versione della famosa serie su uno spadaccino cieco che gira di paese in paese. Il film, eccentrico e carico di azione, con Kitano nel ruolo del biondo protagonista, incassò in Giappone 2,85 miliardi di yen, pari a 24 milioni di dollari e rappresentò un picco nella carriera del regista nonché il quinto miglior incasso di quell’anno fra i film giapponesi.

Kitano continuò con la trilogia di successo Outrage sulle guerre tra bande della yakuza che si lasciavano dietro un bel numero di vittime. L’ultimo episodio della trilogia, Outrage Coda (2017), che vedeva Kitano nel ruolo di un gangster della vecchia scuola che uccide con la stessa emozione chi sta sterminando scarafaggi, fece il rispettabile incasso di 1,59 miliardi di yen (13,5 milioni di US$). La pellicola riciclava i familiari cliché dei film precedenti del regista, compreso il carattere imperturbabile e spietato del suo protagonista. Da allora Kitano non ha realizzato più film. 

In questo millennio altri registi hanno cercato di strappare a Kitano lo scettro di regista in attività più eminente del Giappone. Kore-eda Hirokazu ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2018 con il suo cupo dramma familiare Un affare di famiglia, mentre Hamaguchi Ryusuke si è portato a casa quattro nomination agli Oscar, compresa quella per il miglior film, per il suo film drammatico del 2021 Drive My Car.   

“È sempre un cineasta che vale la pena seguire”, dice Aaron Gerow, docente di Yale ed esperto di cinema giapponese che nel 2008 ha scritto un libro su Kitano. “Ma non si pensa più che lui guidi il cinema nipponico come accadeva un tempo, e sono sempre meno i giovani cineasti che cercano di emulare i suoi film recenti. Kitano non mette più radicalmente in discussione il cinema giapponese come faceva in passato ed è per questo che il suo lavoro non comunica più a un meta-livello come una volta”.

In ogni modo, Kitano è ancora un maestro il cui lavoro ha resistito nel tempo. Un simile risultato sarebbe sembrato una favola all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, quando il regista era un comico che faticava a sbarcare il lunario lavorando in un locale di spogliarelli di Asakusa, il turbolento quartiere dell’intrattenimento di Tokyo. Quel periodo della sua vita è diventato Asakusa Kid, un film di Netflix del 2021 diretto dal comico Gekidan Hitori e tratto dall’omonimo libro autobiografico dello stesso Kitano, e nel quale il giovane regista è interpretato da Yagira Yuya. Non si tratterà mica di un commiato? È invece molto probabile che Kitano, la cui energia e ambizione un tempo sembravano illimitate, ne farà una delle sue.  

* Siccome Takeshi Kitano è conosciuto in tutto il mondo in questo modo, facciamo eccezione alla regola giapponese cognome-nome.
Mark Schilling