Sulla base delle cifre pubblicate dalla Motion Picture Producers Association of Japan (MPPAJ), nel 2016 sono stati i film giapponesi a dominare il botteghino nipponico, con una quota di mercato pari al 63,1. Non si tratta di una tendenza recente: a partire dal 2006, l’industria locale ha conquistato una quota di mercato maggioritaria anno dopo anno, ad eccezione del 2007, quando i nuovi episodi di Harry Potter e Pirati dei Caraibi, sono arrivati direttamente in cima alle classifiche di botteghino.
Il campione di incassi del 2016 è stato Your Name, il film di animazione di Shinkai Makoto, con 209 milioni di dollari nel corso dell’anno, che in seguito sono aumentati ancora fino a 213 milioni. Questo mix vertiginoso e splendidamente animato tra fantasy sullo scambio dei generi e commedia sentimentale adolescenziale si è piazzato al secondo posto tra i campioni di incassi giapponesi di tutti i tempi, dietro al successone La città incantata di Miyazaki Hayao del 2001. Your Name ha scalato anche le classifiche di Cina e Corea del Sud, stabilendo un nuovo record mondiale di botteghino per un film giapponese.
Sotto la spinta di questo mega successo, nel 2016 il box office giapponese ha totalizzato 1,9 miliardi di dollari, con un incremento dell’8% rispetto all’anno precedente: la cifra più alta dopo il 2000, quando il MPPAJ,che fino ad allora aveva rendicontato gli incassi dei distributori (vale a dire la quota di botteghino destinata alle società di distribuzione) relativamente ai film più importanti dell’anno, ha iniziato a pubblicare, secondo un sistema più diffuso a livello internazionale, le cifre relative agli incassi nei cinema (vale a dire l’incasso totale di un film definito come incasso totale di tale film al botteghino). Il record precedente era stato stabilito nel 2010, quando il film più importante dell’anno era stato Avatar.
Al secondo posto nel 2016 c’era Star Wars: Episodio VII – Il risveglio della Forza con un incasso di 103 milioni di dollari. Il terzo posto è stato occupato da Shin Godzilla (a.k.a. Godzilla Resurgence), un reboot della serie del mostro iconico, diretto a quattro mani dal creatore della serie Evangelion Anno Hideaki e da un veterano degli effetti speciali, il maestro Higuchi Shinji; il film ha incassato in totale 73 milioni di dollari. Sia Shin Godzilla che Your Name sono produzioni della Toho, il potente distributore ed esercente che ha al suo attivo otto dei dieci film della top ten giapponese nel 2016.
Il numero totale di film usciti in sala lo scorso anno, 1149, è leggermente più alto del 2015, e lo stesso vale per i film nazionali, che sono 610 rispetto ai 581 dell’anno precedente. Nel 2016 è aumentato anche il numero di schermi, che dai 3437 del 2015 è passato a 3472.
Sia Your Name che Godzilla Resurgence hanno ricevuto riconoscimenti da parte della critica e degli addetti ai lavori, oltre a una nomination della Japan Academy come miglior film di animazione per il primo film e come miglior film per il secondo.
Ma il beniamino della critica, nonché grandissima sorpresa al botteghino per il 2016, è stato In This Corner of the World, film di animazione di Katabuchi Sunao sulla vita di una giovane donna, prima a Hiroshima, nel periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale, e poi nel vicino porto di Kure, durante la guerra. Il film, partito in sordina senza grosse promozioni, si è rivelato un grandissimo successo.
Tratto dall’omonimo manga dell’artista Kono Fumiyo, nativa di Hiroshima, il film è uscito il 12 novembre scorso in 63 sale della Tokyo Theatres, un distributore di medie proporzioni. Grazie ad alcune riuscite campagne di crowdfunding che hanno attirato l’attenzione di gran parte dei media, il film ha fatto il tutto esaurito sin dalla prima settimana di tenitura, incoraggiando la Tokyo Theatres a potenziarne la distribuzione, tanto che a metà febbraio di quest’anno il film veniva proiettato in 289 sale di tutto il Giappone con un totale di ben 1,5 milioni di biglietti venduti.
In questo lasso di tempo, In This Corner of the World ha fatto incetta di un premio dopo l’altro, compreso quello per il miglior film giapponese attribuito nell’ambito dei Best Ten Awards di Kinema Junpo sulla base della votazione di una giuria di critici sponsorizzata dalla più antica rivista cinematografica giapponese, che quest’anno festeggia la sua novantesima edizione.
Il film – che merita questo e altri riconoscimenti per le sue descrizioni accorate e sorprendentemente crude del prezzo umano pagato alla guerra, compresa la bomba atomica lanciata su Hiroshima – celebra anche il coraggio e l’abnegazione dei personaggi in un modo che ricorda i film di propaganda del periodo bellico di Kinoshita Keisuke. Analogamente al classico Army di Kinoshita del 1944, questo spirito patriottico è temperato da un’attitudine fortemente antibellica (anche se Kinoshita, limitato dalla censura dell’epoca bellica, era costretto a esprimerla indirettamente).
Il blando nazionalismo di In This Corner of the World fa parte di una tendenza in auge che ha raggiunto la sua apoteosi in Shin Godzilla. Malgrado l’approccio satirico, buffo e ironico nel mostrare la goffaggine dei funzionari di fronte alla crisi nazionale causata dall’arrivo di Godzilla nella baia di Tokyo, il nucleo narrativo si sposta presto sulla task force riunita per fronteggiare il minaccioso lucertolone da un impetuoso e giovane vice capo di gabinetto (Hasegawa Hiroki). Grandi lavoratori e ingegni brillanti, se non addirittura secchioni, questi personaggi sono un “Team Japan” cinematografico di circa trecento persone che alla fine se la caverà egregiamente.
Un paragone ovvio è quello con i cosiddetti “Cinquanta di Fukushima”, la squadra di lavoratori della centrale nucleare danneggiata Dai-ichi di Fukushima, che lavorarono incessantemente mettendo a repentaglio la propria vita dopo il terremoto, lo tsunami e il guasto ai reattori nucleari dell’11 marzo 2011. Il mostro protagonista di Shin Godzilla, in passato simbolo di distruzione nucleare, si è ormai trasformato in un disastro ambulante.
Ma ci sono cose che non cambiano mai: nella top ten dei film giapponesi c’erano ben sei pellicole di animazione, che comprendevano nuovi episodi di serie popolari come Detective Conan, Yokaii Watch, One Piece e Doraemon. Ancora una volta i film che hanno primeggiato al botteghino sono stati prodotti dai cosiddetti “comitati di produzione”, composti dalle reti televisive e da altre importanti società del settore dei media.
Invece, ad eccezione di In This Corner of the World, i cosiddetti film a medio budget faticano sempre più a trovare finanziatori e pubblico. Il mercato si sta sempre più spaccando in due, tra “chi può” (i film commerciali che godono di ampia distribuzione nei multisala) e “chi non può” (i film indipendenti a bassissimo budget che vengono proiettati in una manciata di sale con teniture molto brevi).
Come mai il numero di film in uscita continua a crescere nonostante questo scarto sia sempre più grande? Una delle ragioni è che la digitalizzazione del processo di realizzazione di un film ha ridotto i costi e gli ostacoli iniziali, in un paradiso del gadget come il Giappone.
Altra ragione è la crescita di Motion Gallery e di altri siti di crowdfunding che permettono ai cineasti di scansare i comitati di produzione e di dirigersi direttamente ai fan per ottenere supporto finanziario. E, ancora, c’è la disponibilità di tali cineasti a promuovere per settimane o addirittura mesi i propri film presenziando in cinema ed eventi allo scopo di ottenere i finanziamenti necessari (non sempre con successo). Malgrado tali sforzi, i proventi dei film raramente superano il livello minimo di sopravvivenza.
Sapendo che simili sacrifici non possono essere fatti a tempo indeterminato (anche i registi indipendenti devono pagare il mutuo e mantenere una famiglia), un gruppo di professionisti del settore, che include il regista Fukada Koji e il documentarista Tsuchiya Yutaka, ha creato l’Independent Cinema Guild (Dokuritsu Eiga Nabe), un’organizzazione che ha come scopo il miglioramento delle condizioni del cinema indipendente e che mira a ottenere lo status di ONLUS, per far ottenere così ai potenziali finanziatori un consistente abbattimento delle imposte. Nel frattempo l’ICG sta lavorando con la Motion Gallery per sostenere le campagne di crowdfunding e organizzare simposi ed eventi in cui i membri possano scambiarsi informazioni.
Inoltre, l’industria del cinema giapponese, tradizionalmente insulare, si sta poco a poco aprendo all’internazionalizzazione, da e verso gli altri Paesi, e questo crea nuove opportunità per i talenti giapponesi. Per fare un esempio sommario: quando Ishihara Satomi ha interpretato una delegata presidenziale nippo-americana in Shin Godzilla, ha recitato diverse battute in un inglese che doveva sembrare madrelingua (anche se molti madrelingua non sono d’accordo) – e quel ruolo l’ha lanciata nel firmamento delle stelle. Intenzionale o no, il suo successo indica che un’immagine “internazionale” esercita ancora una certa attrazione tra il pubblico locale (e all’attrice ha anche procurato un lavoretto come testimonial di un’associazione di scuole di lingua).
Intanto sta aumentando il numero di attori e registi nipponici che parlano un inglese da buono a ottimo. Alcuni di essi, come Iwai Shunji, Watanabe Ken e l’attrice Momoi Kaori, hanno lavorato a lungo, o addirittura in modo permanente, negli Stati Uniti.
Sempre più spesso, poi, i giapponesi lavorano su set cinematografici in Corea, Cina e in tutta il continente asiatico, e parlano la lingua del posto sia sullo schermo che fuori dal set. Il caratterista veterano Kunimura Jun ha fatto incetta di premi in Corea per l’interpretazione di un forestiero giapponese che semina il terrore in un villaggio di montagna in The Wailing, un horror del 2016 di Na Hong-jin che ha avuto grande successo. Stessa sorte ha avuto Otsuka Ryuji, un cineasta che vive in Cina dal 2005, che quest’anno ha ottenuto una menzione Speciale nella sezione Generation 14plus del Festival di Berlino per il dramma in cinese mandarino The Foolish Bird da lui co-diretto.
Ma i premi più importanti dei festival principali come Berlino, Cannes e Venezia, stanno diventando difficili da ottenere per i talenti giapponesi. I cosiddetti registi “delle quattro K”, vale a dire Kawase Naomi, Kore-eda Hirokazu, Kurosawa Kiyoshi e Kitano Takeshi, che da diversi anni partecipano a questi festival, non suscitano più quella sorta di eccitazione da premio che provocavano nei decenni passati e i registi della generazione successiva o ancor più giovani ogni tanto riescono a strappare qualche raro invito o premio, come Fukada Koji, che l’anno scorso a Cannes ha vinto il Premio della Giuria nella sezione Un Certain Regard con il suo dramma Harmonium. Ma, essenzialmente, l’attenzione internazionale è ancora rivolta altrove.
Una delle ragioni è data dalle mode festivaliere: i selezionatori sono sempre alla ricerca di ciò che farà scalpore, e di certo il cinema giapponese non rientra più in questa categoria. Proprio come il sushi non è più qualcosa di esotico a Londra o a New York, non lo sono nemmeno gli horror giapponesi, con i loro fantasmi femminili dai lunghi capelli – o i drammi familiari delicati e sensibili che i critici non giapponesi inevitabilmente paragonano a Ozu.
Più significativamente, i cineasti internazionali attualmente realizzano film di livello mondiale non solo in Francia, Corea del Sud o altri paesi con un’industria cinematografica forte, ma anche in Europa dell’Est, nel Sudest asiatico e altri contesti che un tempo erano considerati arretrati dal punto di vista cinematografico. L’industria del cinema giapponese, che per lungo tempo si è accontentata di attingere solamente al proprio mercato interno, ha avuto una risposta troppo lenta all’intensificarsi di questo genere di concorrenza.
Ma le mode possono cambiare, soprattutto se i cineasti giapponesi più giovani (o perlomeno più giovani dei cinquantenni appartenenti alla generazione delle 4K) sono disposti a lavorare fuori da contesti culturali commerciali e personali protetti. E non è necessario avere Ms. Ishihara nel cast.
Mark Schilling