Nel 2016 la produzione cinematografica annua a Singapore si è mantenuta stabile, assestandosi intorno a una ventina di lungometraggi, e ha prodotto alcune vere e proprie perle, che testimoniano come il talento cinematografico nel paese continui a dare dei frutti.
Il locale campione d’incassi Jack Neo ha reso tardivamente omaggio al cinquantesimo anniversario dell’indipendenza di Singapore (celebrato nel 2015) con un dramma storico in due parti, Long Long Time Ago e Long Long Time Ago 2. Il primo film, Long Long Time Ago, è ambientato durante il primo decennio dell’indipendenza di Singapore (tra il 1965 e i primi anni Settanta) e traccia lo sviluppo della nuova città-stato attraverso le vicissitudini e le tribolazioni di una famiglia in particolare. Si comincia con Zhao Di, una vedova che, ripudiata dalla famiglia del marito, è costretta a tornare con le tre figlie piccole al suo kampung (villaggio), dove non sono ben accette. Attraverso il sacrificio, il duro lavoro e la tenacia, Zhao Di riesce però a dimostrare il suo valore.
Long Long Time Ago, uscito il 4 febbraio in occasione del Capodanno Lunare, colpisce per il suo gradevole fascino e per la sua autenticità, in particolare nell’uso del dialetto Hokkien, presente nella maggior parte dei dialoghi insieme ad alcune battute in malese e in inglese (all’epoca ben pochi dei cinesi incolti di Singapore avrebbero saputo parlare mandarino). Per il regista è stata una vittoria, poiché l’utilizzo del dialetto nei film è scoraggiato in nome della campagna ufficiale “Parla mandarino”. Al botteghino il film è andato bene e alla fine di marzo, quando è uscito il sequel Long Long Time Ago 2, aveva incassato 4,15 milioni di dollari singaporiani. La produzione dei due film è costata circa sei milioni di dollari singaporiani.
Anche nel secondo capitolo la storia è incentrata su Zhao Di e sulla sua famiglia. Dopo le inondazioni del 1969 Zhao Di rileva la fattoria di famiglia. In quel periodo si verifica uno spostamento in massa della popolazione, che dai kampung si trasferisce nei nuovissimi complessi residenziali a più piani, quando il governo inizia la confisca dei terreni in nome dello sviluppo. Zhao Di riceve un indennizzo per la terra, ma il fratello minore Ah Kun trama per accaparrarsi il denaro. Il regista riflette anche sui cambiamenti sociali e sulle nuove sfide della società singaporiana, attraverso la storia d’amore interrazziale tra il fratello minore di Zhao Di, Ah Hee, e la sua fidanzata indiana Rani, una relazione cui si oppongono i genitori di entrambi.
Long Long Time Ago 2 è più artificioso e goffo rispetto al primo film, ed è appesantito da una certa attitudine moralizzatrice oltre che da uno sfacciato product placement: non è stata una sorpresa, quindi, che abbia totalizzato meno del primo film, ovvero 2,41 milioni di dollari singaporiani.
L’ondata nostalgica traspare anche in altri film. In contrasto con la visione mainstream di Neo, l’omaggio di Eric Khoo alla storia di Singapore è rappresentato da In the Room, film ad alto tasso di tensione erotica e vietato ai minori di ventun anni, che ha avuto anche problemi di censura con le autorità locali. Il film è composto da sei storie d’amore, incentrate su sei coppie di diverse nazionalità e background, in un periodo che abbraccia diversi decenni. Ogni storia si svolge nella Camera 27 dell’immaginario e decadente Hotel Singapura.
Fatta eccezione per il secondo episodio, un omaggio colorato e kitsch alla ballerina di cabaret malese e regina dello spogliarello Rose Chan, che era diventata celebre negli anni Cinquanta, tutte le storie parlano del senso di perdita e di solitudine che i piaceri transitori del sesso non possono placare. Purtroppo, In the Room è un’occasione persa. Anche se ci sono momenti ispirati, alcuni difetti della sceneggiatura (scritta a quattro mani da Eric Khoo e Jonathan Lim) e una recitazione poco omogenea fanno sì che il film non sia all’altezza delle sue potenzialità.
The Songs We Sang di Eva Tang è un coinvolgente documentario di due ore che affronta un aspetto quasi dimenticato della storia culturale di Singapore, quello degli xinyao, che in mandarino significa letteralmente “canti di Singapore”: canzoni in mandarino composte ed eseguite da giovani singaporiani. Quello degli xinyao era essenzialmente un movimento studentesco sorto alla fine degli anni Settanta, che raggiunse la massima espansione negli anni Ottanta per poi scomparire lentamente negli anni Novanta. Il movimento aveva messo radici in un periodo in cui sembrava che il mandarino venisse messo da parte per la crescente influenza della lingua inglese. L’utilizzo del mandarino nello xinyao non costituiva solo una prospettiva creativa per i cantautori, ma anche un modo per affermare la propria identità sociale e culturale.
Il film di Tang, ben documentato e ben confezionato, comprende una serie di interviste ai personaggi chiave del movimento xinyao, vecchie registrazioni radiofoniche e televisive e le canzoni che venivano cantate; tutti elementi che ne fanno una risorsa culturale e cinematografica di valore.
Anche My Love Sinema si rifà al passato: diretto da Tan Ai Leng, è un omaggio al nostalgico film italiano Nuovo Cinema Paradiso. La storia è incorniciata da alcune scene ambientate nel presente: un regista di successo, Mai, viene intervistato da un conduttore televisivo e dal suo produttore mentre sta andando a trovare, a sorpresa, l’anziano proiezionista Keong. Quarant’anni prima era stato proprio il proiezionista a suscitare la passione del regista per il cinema. Il vecchio racconta la vicenda centrale del film, cioè come è diventato un proiezionista, negli anni Cinquanta. Parla anche del suo amore per Xiao Wei, una ragazza appartenente a una famiglia facoltosa che era anche la sua insegnante alle scuole serali oltre che un’appassionata attivista anti-coloniale. La loro era una storia d’amore senza futuro, perché lei era già fidanzata con un ricco e influente uomo d’affari e il padre era fortemente contrario alla sua relazione con un proiezionista squattrinato. Come i due episodi di Long Long Time Ago di Neo, anche My Love Sinema è stato girato in parte a Ipoh, in Malesia. Se alcune scene rievocative, come quella della proiezione di film all’aperto nei kampung, sono davvero incantevoli, la narrazione complicata che si svolge in archi temporali diversi e la recitazione disomogenea compromettono la qualità del film.
Il cinema di Singapore ha registrato alcuni importanti successi nel circuito internazionale nel 2016, come Apprentice, un dramma di 96 minuti diretto dal trentatreenne Boo Junfeng, la cui opera prima, Sandcastle (2010), è stato il primo film singaporiano invitato alla Semaine de la Critique al Festival di Cannes. Anche Apprentice, che si avvale della produzione esecutiva della Zhao Wei Films di Eric Khoo, è stato presentato a Cannes, nella sezione Un Certain Regard, ed è stato il film singaporiano candidato all’Oscar per il miglior film straniero nel 2017.
Il protagonista di Apprentice è il ventottenne malese Aiman, un agente di custodia che riceve un nuovo incarico e viene assegnato al carcere di massima sicurezza del paese. Lì conosce il sergente Rahim che, come scopre ben presto, è il veterano capo carnefice della prigione. Il legame tra i due si rafforza e, quando l’assistente di Rahim si licenzia all’improvviso, Rahim chiede ad Aiman di diventare il suo apprendista. Tra sentimenti contraddittori, Aiman accetta ma quando lo racconta alla sorella maggiore, Suhaila, lei inorridisce perché proprio Rahim aveva giustiziato il loro padre trent’anni prima. Come Sandcastle, Apprentice è uno studio approfondito di complesse emozioni e relazioni interpersonali, nonché un’attenta riflessione sulla società di Singapore, un paese in cui è ancora in vigore la pena capitale. In Apprentice il regista prende la brillante decisione di presentare il tema controverso della pena di morte dal punto di vista psicologico del boia. Il rituale dell’accompagnamento di un detenuto nell’ultimo percorso verso la forca è girato con un realismo documentaristico che lo rende un’esperienza intensa e agghiacciante. È merito di Boo se il film evoca la compassione dello spettatore non soltanto per i detenuti del braccio della morte, ma anche per chi ha l’ingrato compito di tirare la leva. Apprentice è stato girato in esterni a Sydney, in Australia, e a Singapore con un budget di 1,8 milioni di dollari singaporiani.
Un altro film legato al carcere che ha attirato l’attenzione internazionale è stato A Yellow Bird, un lungometraggio drammatico di 111 minuti, coprodotto da Singapore e Francia, diretto e co-sceneggiato dal regista singaporiano K Rajagopal. L’opera prima di Rajagopal è stata invitata alla Semaine de la Critique al Festival di Cannes del 2016, e ha accompagnato così Apprentice di Boo Junfeng al prestigioso festival cinematografico internazionale.
Prodotto dall’Akanga Film Asia (che ha prodotto anche Apprentice) per 600.000 dollari singaporiani, A Yellow Bird racconta la storia di Shiva (l’attore singaporiano Sivakumar Palakrishnan), un trentottenne indiano di Singapore che esce di prigione dopo avere scontato otto anni per contrabbando. Ma la vita al di fuori delle mura della prigione sembra un altro carcere, con le sue impenetrabili pareti di dolore, povertà e pregiudizio. Siva torna al minuscolo appartamento della madre (l’attrice indiana Seema Biswas) e scopre che la sua camera è stata affittata a migranti cinesi. Va alla disperata ricerca dell’ex moglie e della figlia. Per mantenersi, suona in un gruppo che si esibisce ai funerali. Incontra Chen Chen (l’attrice cinese Huang Lu), una lavoratrice illegale della Cina continentale che campa facendo mille lavoretti, anche la prostituta, per aiutare la famiglia oberata dai debiti, e avvia una relazione con lei. Ma sembra quasi che la gente e gli eventi congiurino contro di lui; il suo carattere scontroso e il suo temperamento esplosivo non fanno che peggiorare le cose.
Come hanno commentato molti spettatori, A Yellow Bird è implacabilmente cupo e raffigura la vita di chi è ai margini della società con un realismo deprimente. In contrasto con l’immagine convenzionale di una città-stato prospera e ordinata, il regista mette deliberatamente in evidenza la situazione disperata di coloro che non trovano riconoscimento e vengono opportunamente ignorati, dimenticati o abusati. Per farlo entrare nella parte di Shiva il regista Rajagopal ha convinto l’interprete, l’attore televisivo Sivakumar Palakrishnan, a dormire all’addiaccio per le strade di Little India a Singapore, perché capisse cosa vuol dire essere senza fissa dimora. In effetti i personaggi del film hanno un’autenticità che non è sempre scontata nei film di Singapore.
L’opera prima Pop Aye, scritto e diretto dalla trentacinquenne Kirsten Tan, è uno dei film più compiuti che siano mai stati realizzati da un regista singaporiano. Nata e cresciuta a Singapore, la regista risiede a New York ma ha vissuto anche in Corea del Sud e in Thailandia e ha coraggiosamente ambientato le vicende di Pop Aye in Thailandia, con cast e troupe locale.
Pop Aye presenta la storia di Thana, un architetto di mezza età di Bangkok in piena crisi esistenziale, fallito sia nella vita professionale sia nel matrimonio. Thana si imbatte casualmente in un elefante che gli ricorda quello che conosceva da ragazzo e che aveva battezzato Pop Aye, in onore del suo personaggio preferito dei cartoni animati. L’uomo lo compra e lo porta al suo villaggio natale dopo un viaggio interminabile di cinquecento chilometri.
Durante questa peculiare odissea, i due incontrano i personaggi più strani, dal poliziotto al travestito, a un povero in grado di leggere le stelle. Le interazioni e le situazioni sono frutto di un delicato equilibrio tra elementi poetici e dell’assurdo, tra tocchi umoristici e surreali ancorati nella realtà non sentimentale. Il film è interamente pervaso da un senso di malinconia. Più forte ancora però è la percezione dell’umanità che, in ultima analisi, trasforma il cammino dell’uomo e dell’elefante in un percorso di speranza e redenzione.
Pop Aye è una co-produzione tra Singapore e Thailandia ed è prodotto da Lai Weijie, con la produzione esecutiva di Anthony Chen (Ilo Ilo) per la sua casa di produzione Giraffe Pictures. Selezionato come film d’apertura della sezione World Dramatic al Sundance Film Festival nel 2017, il film di Kirsten Tan ha vinto il Premio Speciale della Giuria della sezione World Cinema Dramatic per la sceneggiatura. Poco dopo, il film ha vinto il premio Big Screen VPRO al Festival di Rotterdam (gennaio/febbraio 2017). Tan, voce davvero originale di Singapore, non è una neofita dei festival cinematografici. I suoi cortometraggi, come Dahdi (Granny, 2014), Fonzi (2007) e 10 Minutes Later (2006), hanno vinto più di trenta premi in patria e all’estero negli ultimi dieci anni.
Anthony Chen è anche produttore esecutivo e sceneggiatore del film antologico Distance, il primo lungometraggio della sua società cinematografica, la Giraffe Pictures. I tre episodi sono stati diretti da tre giovani registi, Xin Yukun (Cina), Tan Shijie (Singapore) e Sivaroj Kongsakul (Thailandia), alle prese con il tema della perdita e del rimpianto da superare. L’attore taiwanese Chen Bo-lin interpreta un personaggio diverso in ciascuno degli episodi. Il film è stato scelto per aprire il Golden Horse Film Festival di Taipei nel mese di novembre del 2015.
1 SGD = USD 0,71 // EUR 0,67 (al 2 marzo 2017)
Jan Uhde & Yvonne Ng Uhde